martedì 4 marzo 2014

Rifiutai di fare aborti: non devi sacrificare la tua integrità per andare avanti


Talvolta nella vita il momento della prova, l’attimo in cui tutti i tuoi convincimenti di sempre devono passare dai discorsi ai fatti, ti piomba addosso come un macigno staccatosi dal costone. Può capitare a tutti, ma a noi cattolici che pratichiamo la medicina capita ancora di più. Per noi è un male la contraccezione, l’aborto, la fecondazione artificiale, l’eutanasia. Per noi è un male collaborare formalmente a tali azioni ed è pure un male prestare ad esse una collaborazione materiale diretta.
Fare tutto questo significa peccare, cioè piantare esattamente anche il nostro chiodo sul corpo di Gesù Cristo sulla croce. Tutto è chiaro, ma giunge una volta in cui la voce della coscienza che ci ricorda il bene da fare e il male da evitare è oscurata da tante altre voci che gridano prepotenti e assordanti: “non sarai capito“, “puoi essere denunciato“, “il capo se la prenderà con te“, “dì pure addio alla carriera“.
In una manciata di secondi si deve talora prendere una decisione capace di condizionare la vita intera. C’è bisogno della luce dell’intelletto, ma non basta, serve anche la virtù della fortezza, la capacità di resistere nell’avversità che si allena e irrobustisce nel combattimento spirituale. È consolante che il racconto di uno di questi casi trovi spazio sulle pagine di una delle riviste mediche più prestigiose, il British Medical Journal nel novembre 2013.
L’articolo ha per titolo “Rifiutai di fare aborti: non devi sacrificare la tua integrità per andare avanti“. L’autore ha preferito rimanere nell’anonimato. Le ragioni di questa scelta possono essere varie e rispettabili, fatto sta che il comitato editoriale della rivista inglese ha comunque deciso per la pubblicazione. La protagonista della storia è una giovane dottoressa tirocinante in ginecologia e ostetricia impegnata ad assistere in sala operatoria. Racconta che un giorno una paziente viene inserita all’ultimo momento per un intervento di raschiamento. Il suo tutor specialista, un medico la cui perizia tecnica aveva tante volte potuto ammirare, dopo avere letto la cartella, decide di andare in pausa pranzo e di lasciare a lei l’intervento.
Nessun problema, pensai“.
Ma il racconto così prosegue:
A proposito“, disse la caposala mentre si lavava accanto a me, “È un aborto, non un raschiamento“. Sentii il sangue farmi arrossire in volto: “Un aborto?” .
La protagonista racconta del pavimento che tremava sotto i passi del suo tutor, del ferro chirurgico che le scagliò contro sfiorandole il capo, delle sue parole minacciose e incredule “Che intendi dire dicendo che non lo fai?” e del suo ordine davanti a tutto il personale ammutolito: “Farò io l’aborto e tu te ne starai proprio là a guardare“.
Più tardi, racconta, il medico entrò nella stanza riunioni e senza abbassare la voce le disse:
Mi dispiace per quello che è successo prima. Ero solito credere ciò che tu credi. Ho soffocato la mia coscienza per farmi una carriera. Tu sei ferma alle tue convinzioni”.
Il racconto prosegue dicendoci che per quelle convinzioni, no all’aborto, no alla pillola del giorno dopo, no alla spirale, la dottoressa fu obbligata a rinunciare alla ginecologia, con scarse possibilità di trovare un impiego, nonostante la medicina fosse la sua vocazione sin da piccola. Oggi, quella dottoressa scrive di avere alle spalle una lunga carriera nell’ambito della medicina generale che insegna anche all’università. Non dimentica il suo passato: “Tengo d’occhio gli studenti che soffrono per dilemmi medici simili. Li rassicuro ed incoraggio a mantenere una coscienza limpida, qualsiasi cosa accada. È una cosa grande che così tanti studenti, di molte fedi o di nessuna fede, sfidino ancora i costumi sociali del nostro tempo e si rifiutino di diventare semplici strumenti dello Stato [...] Vale la pena lottare per l’integrità personale e ancora considero un onore particolare avere avuto la possibilità di mettere alla prova il mio convincimento“.
Questa lettura mi ha fatto tornare indietro di oltre 23 anni, a quando, ritirato il certificato di abilitazione, io e il mio compagno di studi facemmo il nostro primo atto medico: mandare la lettera al medico provinciale (oggi quella figura non esiste più) con la nostra dichiarazione di obiezione di coscienza all’aborto. Mi giungono notizie che sta per partire un’altra campagna infame contro i medici obiettori di coscienza. Non basta che legalmente siano stati soppressi 5 milioni e mezzo di esseri umani colpevoli solo di esistere, no, vogliono il nostro silenzio, vogliono la nostra connivenza, se non il nostro plauso. Dopo l’impunità legale, vogliono l’impunità morale. Non l’avranno. Non l’avranno da me, non l’avranno da noi medici obiettori. Nessuno, nessuno può decidere che diventiamo uomini che uccidono altri uomini innocenti, non per questo siamo medici. Nessuno può decidere di violare la nostra integrità manipolando la nostra coscienza, non consentiremo di trasformarci nelle fotocopie di quei medici che si esercitarono a Dachau; non ci lasceremo espellere dalla vita sociale per essere rinchiusi in un ghetto.
Si rassegnino, come ci ha indicato la chiesa in Concilio, continueremo a chiamare il loro diritto, un abominevole delitto.

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