venerdì 27 dicembre 2013

Tanto gentile e tanto onesto è Toti, l’uomo della Leopolda berlusconiana



Nel “cherchez l’homme” che è diventata l’attesa della rivoluzione neoberlusconiana c’è un nome ricorrente: Giovanni Toti, quarantacinquenne direttore di Studio Aperto e del Tg4 nel dopo Emilio Fede, da quasi vent’anni in Mediaset. Non un uomo nuovo nel vero senso della parola. Non ancora un politico e non più soltanto un giornalista, se è vero che da tempo Toti è assiduo al desco di Arcore (le decisioni prese o non prese a tavola sono un aspetto del Cav. che va molto a genio a Toti e viceversa, dice chi li conosce entrambi). Per dirla con Paolo Liguori, poi, uno che Toti l’ha assunto agli albori della sua carriera a Mediaset, il possibile uomo nuovo “non sembrerebbe, a prima vista, e per carattere, neppure un tipico giornalista: è gentile, mite, onesto, mediatore, poco incline alla minacciosità. Queste stesse caratteristiche fanno sì che sia difficile immaginarselo in politica, a meno che il nuovo secolo non abbia spazzato via la verità novecentesca colta da Rino Formica sulla politica ‘sangue e merda’, sostituendola con l’idea di una politica fatta di buoni tavoli, buoni vini e una soluzione da trovare”.
“Educato, ragionevole, con il pallino dell’info-politica anglosassone”. Questo è l’identikit che più di un osservatore di ambienti berlusconiani fa di Giovanni Toti, ex giovane socialista (alla fine degli anni Ottanta) ed ex ragazzone partito dalla Toscana marittima (Massa, Viareggio, Forte dei Marmi) alla volta di Milano, dove, nel ’96, uno stage segnò l’inizio di una carriera tutta interna alle news (a parte l’esperienza alla comunicazione aziendale con Mauro Crippa). Ma com’è diventato, Toti, ufficiale di collegamento tra azienda e Arcore, ultimamente molto presente alle riunioni in cui si discetta del “che fare?”. Di lui si parla molto, infatti, in questi giorni sospesi tra la fine dell’annus horribilis del Cav. e l’inizio non ancora definito della seconda Forza Italia. “Un triumvirato, Berlusconi vuole un triumvirato”, dicevano qualche giorno fa i muri del Transatlantico natalizio, e c’era chi si divertiva a scomporlo e ricomporlo, il triumvirato ipotetico, e c’era chi ci vedeva Toti con Simone Furlan e Antonio Palmieri e chi ci vedeva Toti con Mara Carfagna e Antonio Tajani – e alla fine l’unica costante del futuro ipotetico era lui, Toti.
Che cosa debba fare il triumvirato esattamente non si sa. Quando e se debba entrare in funzione nemmeno. Ma il sussurro di fine anno indica una data, il 26 gennaio (anniversario della discesa in campo solitaria del Cav.) per un nuovo e quasi-solitario scavalcamento di volontà di varie vecchie guardie: il 26 gennaio, una convention e un Toti coordinatore, con altri, di un partito liquido, all’americana, leggero nella forma, agile nei contenuti (“vicino ai problemi delle persone”, dicono speranzosi i fan), non appesantito da propaggini troppo territoriali, capace di prendere forma da una kermesse dall’aria rinnovatrice (“la Leopolda di centrodestra”, scherzano i colleghi che ricordano un Toti che presenta il libro di Renzi alla Versiliana e un Toti molto attento ai ricaschi mediatici del fenomeno-Renzi, convinto com’è che comunicazione e politica – mondi separati da confini labili – non siano più del tutto scindibili). E però Toti ha mantenuto buoni rapporti con Angelino Alfano, motivo per cui chi l’ha sentito parlare in questi giorni racconta l’idea dei “due cantieri”: un cantiere per rifondare Forza Italia e un cantiere per rifondare il centrodestra dopo una scissione che stride con la storia del Berlusconi che, nei momenti di scatto di volontà, ha messo insieme il non unificabile (nord e sud, leghisti e post fascisti). Ed è in questi mesi di dubbi e drammi e ripensamenti e giravolte del Cav. che è diventata più concreta la possibile metamorfosi in veste politica del giornalista Toti, rassicurante nei toni sia per il Cav. sia per Mediaset, visti i suoi buoni rapporti con Mauro Crippa, Fedele Confalonieri e Pier Silvio Berlusconi, e vista la sua lunga consuetudine di “ambasciatore” di Mediaset presso il Cav. (Toti era quello che andava, parlava, riferiva, tornava e, dice un collega, “evitava di privatizzare il rapporto di fiducia con Berlusconi, con tanto di guadagnato per tutti”). Dopodiché tutti, intorno a Toti, sentono dire a Toti che, “se non ci sono le condizioni”, lui resta “molto volentieri” a fare quello che fa.
Ma ormai l’arcano del triumvirato ha acceso le fantasie di Capodanno e il discreto Toti, defilato dalla prima linea ruggente della mondanità, è diventato argomento di conversazione: che fa?, chi frequenta? dove va? L’arcano è alimentato anche da un altro fatto: Toti è sposato con Siria Magri, già vicedirettore di Videonews, curatrice di vari programmi Mediaset (è capostruttura di “Quarto grado”) e garbata “macchina da guerra” dell’informazione secondo gli estimatori. “Sembrano Paolo Del Debbio e Gina Nieri del ’94”, dice chi vede in loro una riedizione del primo ed efficiente esempio di “coppia aziendale”. Eppure, fuori da Mediaset, il mondo di Toti è rimasto un mondo da ex ragazzo tranquillo di provincia, figlio di albergatori di Massa ora proprietari di una villetta trifamiliare a Bocca di Magra – terra di confine tra Liguria e Toscana, tra il monte e il mare, a pochi chilometri dai luoghi preferiti dal Toti gourmet, quello che mangia il “tordello” da Beppino a Pietrasanta e beve l’aperitivo all’Almarosa al Forte (“con Toti non sbagli”, dicono gli amici che si fidano ciecamente del suo senso infallibile per i ristoranti, e ora sperano vivamente che abbia fiuto anche per la politica).
Marianna Rizzini
Il FOGLIO

Usa: nel 2013 hanno chiuse 87 cliniche abortive. Grazie alla sensibilizzazione pro life e alle nuove leggi

di Benedetta Frigerio
Sono 87 le cliniche abortive che nel 2013 hanno chiuso i battenti negli Stati Uniti d’America. Escluse le 11 sotto processo le cui attività sono sospese momentaneamente. A chiudere sono stati anche 6 centri che distribuiscono la Ru486, la pillola per l’aborto a domicilio, ne rimangono quindi 177.
I dati sono stati rilasciati dall’organizzazione pro life Operation Rescue, che ha condotto un sondaggio su tutto il territorio statunitense. Il numero totale delle cliniche dove si operano aborti chirurgici è passato così da 669 a 582, un calo del 12 per cento in un solo anno e del 73 rispetto al tetto massimo del 1991, in cui si contavano 2.176 centri abortivi attivi.
LE CAUSE. Cosa ha provocato un calo simile? Sicuramente lo scandalo che ha coinvolto il medico abortista Kermitt Gosnell, a cui sono seguiti altri casi, e i filmati dei movimenti pro life hanno acceso i riflettori su una realtà nascosta. E hanno dimostrato che quanto accadeva nella clinica di Gosnell non era un’eccezione. Sono seguite le leggi restrittive varate da alcuni Stati che hanno vietato l’aborto in età gestazionale avanzata e imposto nuove regole e controlli. In Texas, ad esempio, dove la legge ha bandito l’aborto oltre la ventesima settimana, hanno chiuso ben 11 cliniche. Ma anche le denunce del movimento pro life sono servite a trascinare in tribunale i proprietari di alcuni centri, condannati per procedure illegali, come in Alabama, in California e in Pennsylvania.
GLI EFFETTI. Nel mese di novembre il Centers for Disease Control, organismo di controllo della sanità pubblica degli Stati Uniti d’America, ha rilasciato le ultime stime sull’aborto mostrando un calo del 3 per cento in 3 anni. Secondo la Operation Rescue in questo triennio, 2011-2013, si è verificato il calo maggiore del numero di aborti dal 1973 (anno della depenalizzazione in America).
Gli ulteriori effetti che avranno sui numeri le chiusure recenti non si conoscono ancora, anche se si possono intuire: in Kansas dal 2001, ogni volta che una clinica abortiva ha bloccato le sue attività, l’anno successivo il numero di aborti è diminuito in maniera significativa.
Fonte: Tempi.it
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Messaggio natalizio del Papa: pace per tutto il mondo, lasciamoci commuovere dalla tenerezza di Dio!

Lasciamoci riscaldare il cuore dalla tenerezza di Dio che si è fatto bambino: è l’invito di Papa Francesco nel suo primo Messaggio natalizio in occasione della Benedizione “Urbi et Orbi” pronunciato dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro, dopo gli inni vaticano e italiano suonati dalla Banda della Gendarmeria vaticana e dall'Arma dei Carabinieri. Circa 70mila le persone presenti in Piazza San Pietro.
Il servizio di Sergio Centofanti:

E’ stato un accorato appello di pace per il mondo intero. Il Papa fa suo il canto degli angeli, che apparvero ai pastori di Betlemme nella notte in cui nacque Gesù: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14):

“Un canto che unisce cielo e terra, rivolgendo al cielo la lode e la gloria, e alla terra degli uomini l’augurio di pace. Invito tutti ad unirsi a questo canto: questo canto è per ogni uomo e donna che veglia nella notte, che spera in un mondo migliore, che si prende cura degli altri cercando di fare umilmente il proprio dovere”.

A questo prima di tutto ci chiama il Natale – afferma il Papa: “dare gloria a Dio, perché è buono, è fedele, è misericordioso”:
 

“In questo giorno auguro a tutti di riconoscere il vero volto di Dio, il Padre che ci ha donato Gesù. Auguro a tutti di sentire che Dio è vicino, di stare alla sua presenza, di amarlo, di adorarlo. E ognuno di noi possa dare gloria a Dio soprattutto con la vita, con una vita spesa per amore suo e dei fratelli”.

“La vera pace" – ha proseguito - "non è un equilibrio tra forze contrarie. Non è una bella ‘facciata’, dietro alla quale ci sono contrasti e divisioni. La pace è un impegno di tutti i giorni" che "si porta avanti a partire dal dono di Dio, dalla sua grazia che ci ha dato in Gesù Cristo”. Il Papa, guardando il Bambino nel presepe, pensa “ai bambini che sono le vittime più fragili delle guerre, ma anche agli anziani, alle donne maltrattate, ai malati: “le guerre spezzano e feriscono tante vite!” E “troppe – ha detto - ne ha spezzate negli ultimi tempi il conflitto in Siria, fomentando odio e vendetta”:

“Continuiamo a pregare il Signore perché risparmi all’amato popolo siriano nuove sofferenze e le parti in conflitto mettano fine ad ogni violenza e garantiscano l’accesso agli aiuti umanitari. Abbiamo visto quanto è potente la preghiera! E sono contento che oggi si uniscano a questa nostra implorazione per la pace in Siria anche credenti di diverse confessioni religiose. Non perdiamo mai il coraggio della preghiera! Il coraggio di dire: Signore, dona la tua pace alla Siria e al mondo intero. E anche i non credenti invito a desiderare la pace, con il loro desiderio, quel desiderio che allarga il cuore: tutti uniti, o con la preghiera o con il desiderio. Ma tutti, per la pace”.

Papa Francesco guarda poi all’Africa:

“Dona, Bambino, pace alla Repubblica Centroafricana, spesso dimenticata dagli uomini. Ma tu, Signore, non dimentichi nessuno! E vuoi portare pace anche in quella terra, dilaniata da una spirale di violenza e di miseria, dove tante persone sono senza casa, acqua e cibo, senza il minimo per vivere. Favorisci la concordia nel Sud-Sudan, dove le tensioni attuali hanno già provocato troppe vittime e minacciano la pacifica convivenza di quel giovane Stato. Tu, Principe della pace, converti ovunque il cuore dei violenti perché depongano le armi e si intraprenda la via del dialogo”.
 

C’è anche la Nigeria, “lacerata da continui attacchi che non risparmiano gli innocenti e gli indifesi”. E chiede a Dio di benedire la Terra che ha scelto per venire nel mondo e far così giungere “a felice esito i negoziati di pace tra Israeliani e Palestinesi”. Chiede che siano sanate “le piaghe dell’amato Iraq, colpito ancora da frequenti attentati”. Eleva quindi la sua preghiera per quanti sono perseguitati a causa della fede cristiana, per i profughi e i rifugiati, specialmente nel Corno d’Africa e nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Prega affinché “i migranti in cerca di una vita dignitosa trovino accoglienza e aiuto":
 

“Tragedie come quelle a cui abbiamo assistito quest’anno, con i numerosi morti a Lampedusa, non accadano mai più!”.
 

Quindi aggiunge:

“O Bambino di Betlemme, tocca il cuore di quanti sono coinvolti nella tratta di esseri umani, affinché si rendano conto della gravità di tale delitto contro l’umanità. Volgi il tuo sguardo ai tanti bambini che vengono rapiti, feriti e uccisi nei conflitti armati, e a quanti vengono trasformati in soldati, derubati della loro infanzia”.

Invoca poi il Signore del cielo e della terra perché guardi questo nostro pianeta, “che spesso la cupidigia e l’avidità degli uomini sfrutta in modo indiscriminato. Assisti e proteggi – è la sua preghiera - quanti sono vittime di calamità naturali, soprattutto il caro popolo filippino, gravemente colpito dal recente tifone”. Infine, lancia a tutti il suo invito a fare memoria che “in questa umanità oggi è nato il Salvatore, che è Cristo Signore”:

“Fermiamoci davanti al Bambino di Betlemme. Lasciamo che il nostro cuore si commuova: non abbiamo paura di questo! Non abbiamo paura che il nostro cuore si commuova! Ne abbiamo bisogno, che il nostro cuore si commuova! Lasciamolo riscaldare dalla tenerezza di Dio; abbiamo bisogno delle sue carezze. Le carezze di Dio non fanno ferite: le carezze di Dio ci danno pace e forza. Abbiamo bisogno delle sue carezze. Dio è grande nell’amore, a Lui la lode e la gloria nei secoli! Dio è pace: chiediamogli che ci aiuti a costruirla ogni giorno, nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nelle nostre città e nazioni, nel mondo intero. Lasciamoci commuovere dalla bontà di Dio”.

Dopo la Benedizione “Urbi et Orbi” il Papa ha rivolto a tutto il mondo il suo augurio di buon Natale:

“In questo giorno illuminato dalla speranza evangelica che proviene dall’umile grotta di Betlemme, invoco il dono natalizio della gioia e della pace per tutti: per i bambini e gli anziani, per i giovani e le famiglie, per i poveri e gli emarginati. Gesù, nato per noi, conforti quanti sono provati dalla malattia e dalla sofferenza; sostenga coloro che si dedicano al servizio dei fratelli più bisognosi. Buon Natale a tutti!”.




radio vaticana.va

Parlamento confuso,cine-panettone horror

di Paolo Pillitteri

EDITORIALI
La lenta agonia della Seconda Repubblica si porta con sé una serie di evidenziatori della sua pochezza politica e, al tempo stesso, della sua impunita faccia di bronzo nel negarne l’evidenza. È proprio questo il problema, l’assenza di autocritica sommata alla mancanza di idee, di un progetto e la persistente idiosincrasia per le critiche. Il fallimento di un ventennio non è dovuto al destino cinico e baro, ma a questa classe dirigente che “dirigente” non lo è mai stata perché non ha saputo imporsi, fin da subito, al vecchio establishment, ai poteri consolidati (forti) fra cui la magistratura che, di fatto, è il gestore delle faccende italiane: e se ne vedono le conseguenze. Prima Berlusconi, poi la sinistra con Prodi e D’Alema, poi di nuovo il Cav, sono stati risucchiati nella gelatina delle non-scelte sullo sfondo dell’incontrollabile super-casta togata che ha messo il sigillo sulla “vittima” più rappresentativa della Seconda Repubblica: il leader di Forza Italia, il quale non si arrende, ci mancherebbe altro, lui è un vero gladiatore che soltanto nell’arena, armi in pugno, vuole lottare. Fino alla fine.

Solo che la politica, anche per chi sta all’opposizione - e non si capisce bene a che sia servita al Cav la scissione del suo partito - è un’altra cosa, e la sua arena è il Parlamento, le leggi da approvare, le idee da lanciare, i programmi da realizzare. E la legge elettorale, la prima di queste “cose” da fare. Già, sono dieci anni che lo dicono e il risultato è lo schiaffo della Corte Costituzionale che ha divelto il Parlamento del Porcellum. Sia Berlusconi che Renzi si stanno “usmando” (come si dice qui al nord) proprio sulla legge elettorale, entrambi per “ricattare” Letta e Alfano, giocando allo scavalco e, da parte di Matteo, infischiandosene del ministro Quagliariello che non sembra particolarmente presente nel dibattito che pure lo riguarda. Vista da vicino, questa querelle con tanto di incontri furtivi fra Brunetta e staff renziano o fra Verdini e amici del sindaco, è l’ultimo stadio del teatrino della politica prima dello schianto finale. Perché sia lo stesso Renzi che, soprattutto, il Cavaliere, non sanno che pesci prendere su questa legge. Non si sono preparati, fanno annunci in nome dell’eterno mantra del salvataggio del bipolarismo/maggioritario, cui il Cavaliere ha aggiunto di suo l’auspicio surreale di un sistema bipartitico all’americana, che altro non è che il Porcellum aggiornato. O no?

E come può esistere un sistema non solo bipolare ma addirittura bipartitico con la presenza di tre partiti antagonisti fra loro? È chiaro che parlare di maggioritario, mattarellum, buthanellum (dal Buthan) senza calarli nella realtà odierna è menare il can per l’aia e prendere per il naso gli elettori. Se Alfano ha le idee più chiare sulla riforma elettorale, dalle parti di FI sembrano, al contrario, confuse, anche perché il Cav ha altro per la testa; sta tirando i remi in barca, non ha nessuna voglia di occuparsi di un partito che non c’è, che non vuole e che sta smontando del tutto nelle sue fantasmatiche parvenze gerarchico-organizzative: fino a che non resterà più nessuno e l’ultimo spegnerà la luce, per dire... La fine della parabola berlusconiana è iniziata quando il Cavaliere non ha saputo o voluto cambiare il “vecchio” nel Paese, lasciandosi avviluppare, lui che si presentava come il “nuovo che avanza”, dal retaggio vischioso del male italiano: l’eterno ritorno del sempre uguale peggiorato dalla politica degli annunci senza poi realizzarli. Così è stato sprecato un ventennio. Scommettiamo che persino il nemmeno quarantenne Matteo finirà con l’esserne contagiato? Sintomi ce ne sono eccome, e non solo dalle parti della riforma elettorale su cui Renzi e il suo giovane staff o non hanno le idee chiare o fingono e giocano a rilanciare schemi variabili coi soliti mantra ma senza un solido backstage istituzionale.

Se guardiamo a quanto sta accadendo alla Camera dove il Partito Democratico ha la maggioranza assoluta, sembra che questo partito, baricentro del potere politico come lo era la Democrazia Cristiana, si lasci volentieri trascinare dentro i gorghi delle finanziarie-monstre vecchia Dc, la peggiore delle quali, peraltro, era nettamente migliore di quest’ultima. E Renzi che fa, che dice, che preme, che auspica, che impone? Dicono: lasciatelo respirare, è appena arrivato, dategli tempo. Il fatto è che lui corre a perdifiato da un capo all’altro dello Stivale trovando il tempo di tuonare contro la sopravvivenza delle province, e si accorgerà che ha ragione il buon Casini a frenare, e mettendo il veto sulle slot-machine, che avrà pure qualche ragione. Ma il Renzi del “chi si ferma è perduto” se ne guarda bene dal mettere alla berlina i responsabili, i veri gestori governativi e parlamentari (ovvero il suo partito) di questa legge di stabilità. Che ha prodotto un impressionante cine-panettone (sezione horror), degno dell’oscar per i peggiori film dell'anno. Ma non doveva essere l’anno di Renzi?
L'Opinione

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Le persecuzioni a padre Pio


Un piccolo regalo  per tutti  coloro che stanno seguendo con apprensione la vicenda dei Francescani dell’Immacolata.
Parlando con le persone, mi rendo conto che per molti si tratta non solo di una prova dura, ma di una tentazione fortissima. Lo scoraggiamento, la rabbia, l’indignazione premono alle porte del cuore, ogni volta che si vedono e si sentono notizie e fatti relativi ai Francescani dell’Immacolata.
Forse questi due video potranno aiutare molti di noi a vivere con presenza di spirito, pace e coraggio tutta questa situazione, che umanamente appare tanto assurda ed ingiusta.
Don Attilio Negrisolo, prete padovano, figlio spirituale di Padre Pio (forse il più perseguitato tra loro), racconta la persecuzione tremenda contro il Santo stigmatizzato e i gruppi di preghiera. Il tutto partì proprio da un Vescovo cappuccino, mons. Bortignon…
Una lezione per capire come agisce il maligno:
-          prima colpire e poi andare a caccia di prove;
-          fare accuse generiche; anche allora, le colpe principali di Padre Pio e del mondo che ruotava attorno a lui era quella di non avere il sensus Ecclesiae, di istigare alla disobbedienza, di avere un attaccamento “fanatico” ad una persona ritenuta santa;
-          aumentare sempre di più le minacce, specie nei confronti di coloro che appaiono più deboli e indifesi;
-          calunniare le persone davanti ai superiori, Santo Padre compreso, senza che queste abbiano la possibilità di difendersi;
-          cercare di dividere il più possibile (divide et impera!), e soprattutto isolare…
Una lezione anche per capire come devono agire i cristiani:
-          essere prudenti, vigilanti, combattivi, soprattutto coloro che possono agire;
-          aumentare la preghiera e lo spirito di affidamento al Signore e alla Madonna;
-          non temere coloro che minacciano e colpiscono;
-          agire sempre con massima rettitudine e carità, costi quel che costi.
Buona visione e Sante Feste a tutti!

Il cervello e la persona


Veramente impressionante il modello del cervello umano presentato giovedì 19 dicembre nello studio televisivo di Piero Angela: più alto dello stesso conduttore, rappresentava, ingrandite, tutte le circonvoluzioni esterne e tutte le strutture interne, visibili a richiesta.
La storia evolutiva del cervello e poi soprattutto la sua anatomia, la sua fisiologia e il suo funzionamento sono stati discussi ed affrontati nel corso della lunga trasmissione, contrappuntata da interviste con personaggi illustri nel campo delle neuroscienze, per lo più emeriti, come il prof. Piergiorgio Strata e il prof. Giovanni Berlucchi.
Linguaggio tecnico sapientemente dosato ed incalzante, insipidito con esempi, immagini e filmati come ci ha abituato Angela ormai da qualche decennio, il discorso è filato via veloce ed interessante offrendo un’ampia panoramica delle conoscenze attuali sul cervello.
Onore dunque all’impresa di scienza e di comunicazione che Angela ci ha offerto anche in questa occasione.
Vorrei qui condividere una riflessione, all’inizio un semplice flash, che è diventata sempre più ingombrante mano a mano che la presentazione proseguiva e andava a toccare tutti gli aspetti della nostra vita implicati con questo organo speciale.
Il cervello umano, che pesa poco più di un chilogrammo e che consuma ossigeno dieci volte di più degli altri organi, con una spiccata predilezione per il glucosio, rappresenta ancor oggi una grandissima sfida per gli scienziati che cercano di carpire i segreti alla base delle sue incredibili performances come il pensiero, la coscienza, la volontà, la memoria, i desideri, il linguaggio, le diverse intelligenze, ecc…
Un centinaio di miliardi di neuroni intrecciati in una rete inimmaginabile di contatti e di relazioni costituiscono il supporto materiale visibile della nostra identità più profonda, quella che ci contraddistingue da tutti gli altri animali, ma possono bastare a creare quello spettacolo infinito di possibilità che contraddistingue l’essere umano?
Comunque si rivolti il cervello, la domanda resta la stessa, quella di sempre: noi siamo il nostro cervello?  O ancora: quello di cui siamo consapevoli, quello che proviamo e quello che facciamo… nascono e muoiono lì, nel volume del cervello?
Dopo due ore di trasmissione, sia pur con qualche interruzione pubblicitaria, questo interrogativo è diventato sempre più lacerante: da una parte la ricerca empirica ha evidenziato i circuiti neuronali di molte funzioni superiori e dall’altra la riflessione sintetica ci costringe a coinvolgere il tutto (la persona) nelle funzioni di ogni sua parte (cervello compreso).
Come il motore della macchina che funziona grazie a tutte le sue componenti ma non si lascia esaurire in nessuna di esse: esempio riferito dallo stesso Angela.
E’ ragionevole pensare che il cervello materiale, fatto di neuroni, di neurotrasmettitori e di scariche elettriche, sia l’autore del pensiero, della volontà, dell’amore, della memoria, del linguaggio, ecc… e non semplicemente quella “parte di noi” che meglio li elabora, li manifesta e li realizza?
Ciascuno di noi, colto o ignorante che sia, si rende conto della difficoltà che incontriamo ad attribuire ad una rete di neuroni, sia pur “strutturata”, quelle performances spirituali che sono il tessuto della nostra vita quotidiana.
La sensazione che abbiamo è infatti che il cervello sia organo necessario, certamente, ma non sufficiente a spiegare quello che siamo.
Quando diciamo: “ho visto con i miei occhi”; o ancora: “la corteccia motoria è la sede dei movimenti volontari”, non facciamo un passaggio riduzionista certamente accettabile nel campo della comunicazione (anche didattica) e perfino doveroso nel campo della ricerca, ma fuorviante in quello della riflessione epistemologica?
Come possono gli occhi vedere?  Come può un neurone della corteccia del lobo parietale decidere la passeggiata delle mie gambe?
Credo che giovi sempre, quando si riflette ad un livello superiore a quello richiesto dalla ricerca empirica, ricondurre tutte le funzioni come la memoria, la vista, l’udito, la volontà, l’intelligenza, il linguaggio, ecc…, all’intera persona e non tanto al singolo lobo o alla singola area cerebrale maggiormente coinvolta nel fenomeno, da un punto di vista elettrico o metabolico.
Del resto, non è vero che basta un mal di denti o un piccolo dispiacere a precludere tante nostre funzioni cerebrali, da quelle cognitive a quelle di memoria, da quelle creative a quelle sensoriali?
Uno dei passaggi cruciali della trasmissione è stato il tema della “scelta” che il nostro cervello compie a fronte di più soluzioni per un dato problema; sembra che il cervello si comporti come noi, ovvero seleziona i pro e i contro di ogni percorso, in termini di impulsi eccitatori ed inibitori, e quindi decide.
E’ evidente in questo passaggio che l’antropomorfizzazione del neurone e delle sue scariche elettriche è un processo che può funzionare in chiave didattica e comunicativa, ma certamente non in chiave di interpretazione filosofica.
La scelta che l’uomo compie in ogni atto della vita quotidiana implica un protagonismo libero e creativo che rimanda ad un soggetto unitario, consapevole, che non si lascia ingabbiare in un gioco di neurotrasmettitori, che ne saranno piuttosto l’effetto, che la causa…
E allora, con queste consapevolezze, il rapporto tra noi e il nostro cervello rimane lì, aperto davanti a noi, con tutta la sua complessità irriducibile, e ci fa evocare quel termine che, se fino a qualche anno fa rimaneva un tabù nel linguaggio dei nostri positivisti, oggi riprende dignità anche nei testi scientifici di qualità: il “mistero”, come di una “cosa” che supera sempre la nostra capacità di comprensione e che rimanda al di fuori del suo perimetro.
Come dice il neuro linguista di Pavia, il prof. Andrea Moro, “accettare il mistero è una componente temporanea o definitiva della comprensione della realtà: deve far parte del metodo scientifico.  Se lo si esclude, si parte con un dogma ideologico di onnipotenza conoscitiva che non trova nessun fondamento filosofico, empirico, né tantomeno logico”.

giovedì 26 dicembre 2013

Il Papa: cristiani discriminati anche in Paesi che sulla carta tutelano la libertà, denunciare questa ingiustizia

2013-12-26 Radio Vaticana

All’Angelus, nella festa di Santo Stefano primo martire, Papa Francesco ha esortato tutti i cristiani a pregare per quanti sono perseguitati a causa della loro fede in Gesù. Il Papa ha rammentato che le persecuzioni sono occasione per rendere testimonianza. E tuttavia, ha detto, questa ingiustizia va denunciata ed eliminata. Quindi, ha avvertito che anche in Paesi che tutelano la libertà, i cristiani incontrano limitazioni e discriminazioni. Il servizio di Alessandro Gisotti:
Nel clima gioioso del Natale quasi irrompe la festa di Santo Stefano, primo martire della Chiesa. Questa commemorazione, osserva Papa Francesco, potrebbe “sembrare fuori luogo”. Il Natale, infatti, è “la festa della vita e ci infonde sentimenti di serenità e di pace”. Perché allora, si domanda il Papa, “turbarne l’incanto col ricordo di una violenza così atroce?” In realtà, spiega, “nell’ottica della fede, la festa di santo Stefano è in piena sintonia col significato profondo del Natale”.
“Nel martirio, infatti, la violenza è vinta dall’amore, la morte dalla vita. La Chiesa vede nel sacrificio dei martiri la loro 'nascita al cielo'. Celebriamo dunque oggi il 'natale' di Stefano, che in profondità scaturisce dal Natale di Cristo. Gesù trasforma la morte di quanti lo amano in aurora di vita nuova!”
Nel martirio di Stefano, soggiunge, “si riproduce lo stesso confronto tra il bene e il male, tra l’odio e il perdono, tra la mitezza e la violenza, che ha avuto il suo culmine nella Croce di Cristo”:
“La memoria del primo martire viene così, immediatamente, a dissolvere una falsa immagine del Natale: l’immagine fiabesca e sdolcinata, che nel Vangelo non esiste! La liturgia ci riporta al senso autentico dell’Incarnazione, collegando Betlemme al Calvario e ricordandoci che la salvezza divina implica la lotta al peccato, passa attraverso la porta stretta della Croce”.
Questa, sottolinea, “è la strada che Gesù ha indicato chiaramente ai suoi discepoli, come attesta il Vangelo di oggi: Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato”. Per questo, è stata l’invocazione del Papa, “preghiamo in modo particolare per i cristiani che subiscono discriminazioni a causa della testimonianza resa a Cristo e al Vangelo”:
“Siamo vicini a questi fratelli e sorelle che, come santo Stefano, vengono accusati ingiustamente e fatti oggetto di violenze di vario tipo... Sono sicuro che purtroppo sono più numerosi oggi che nei primi tempi della Chiesa. Ce ne sono tanti! Questo accade specialmente là dove la libertà religiosa non è ancora garantita o non è pienamente realizzata”.
Tuttavia, è stata la sua riflessione, accade “anche in Paesi e ambienti che sulla carta tutelano la libertà e i diritti umani, ma dove di fatto i credenti, e specialmente i cristiani, incontrano limitazioni e discriminazioni”. Il Papa ha, dunque, chiesto ai fedeli in Piazza San Pietro una preghiera silenziosa per tutti i cristiani vittime di persecuzione:
“Per il cristiano questo non fa meraviglia, perché Gesù lo ha preannunciato come occasione propizia per rendere testimonianza. Tuttavia, sul piano civile, l’ingiustizia va denunciata ed eliminata. Maria Regina dei Martiri ci aiuti a vivere il Natale con quell’ardore di fede e di amore che rifulge in Santo Stefano e in tutti i martiri della Chiesa”.
Sostare davanti al Presepe, ha concluso il Papa, “possa suscitare in tutti un generoso impegno di amore vicendevole, affinché all’interno delle famiglie e delle varie comunità si viva quel clima di intesa e di fraternità che tanto giova al bene comune”.

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L’altro Amendola Giovanni, dalla teosofia al giornalismo e alla politica nell’Italia del primo ’900. Un liberale intransigente


Che di Giovanni Amendola i nostri giovani sappiano poco o nulla, lo sospetto da quando – discutendo con alcuni studenti sulle vicissitudini del Pci – mi sono accorto che veniva confuso col figlio Giorgio, “il dirigente comunista maestro di Napolitano”. Asineria a parte, è anche vero che l’inquilino del Colle non ha mai nascosto la sua ammirazione per un “campione intransigente” del liberalismo democratico. Così lo ha definito nella presentazione di un libro di Alfredo Capone (“Giovanni Amendola”, Salerno Editrice, 438 pagg., 24 euro). E’ una biografia che, avvalendosi di una vasta e in parte inedita documentazione, riabilita una figura perseguitata da una sorta di “sfortuna storiografica”. Una figura con la quale “sentono di non aver fatto abbastanza i conti – sottolinea Napolitano – persone rivoltesi come me da giovanissime […] alla politica in quanto scelta di vita”. Insieme all’autore, allora, proviamo a ricostruirne il profilo.

Nato a Napoli il 15 aprile 1882, Giovanni Battista Amendola a due anni è con i genitori a Firenze. Il padre Pietro, originario di Sarno e con trascorsi da garibaldino, vi prestava servizio come carabiniere. La madre, Adelaide Aglietta, apparteneva a una famiglia di simpatie mazziniane. Grazie ai buoni uffici di Giustino Fortunato, Pietro si trasferisce a Roma, dove è assunto come usciere alla Galleria Corsini. Un impiego modestissimo, che costringeva gli Amendola a vivere in una condizione al limite dell’indigenza. Conseguita la licenza media, Giovanni matura una precoce passione per la politica. Appena quindicenne, si iscrive alla gioventù socialista. Al socialismo dottrinario e positivista di Enrico Ferri preferisce quello di Saverio Merlino, perché è “un complesso di sentimenti e di idee che agitano gli animi, mutano i costumi e tendono a […] rendere più eque le relazioni tra gli uomini”. Nel 1898 è apprendista al quotidiano radicale la Capitale. Arrestato per essersi opposto al decreto che scioglieva la sua sezione di partito, interrompe bruscamente il rapporto col giornale. Perché reo, ai suoi occhi, di fiancheggiare la repressione dei moti milanesi ordinata dal generale Bava-Beccaris. Vi sarà poi richiamato dal nuovo direttore Edoardo Arbib, vecchio commilitone e amico del padre.

Nella borghesia romana dell’epoca andavano molto di moda l’induismo e l’esoterismo. Le lezioni del bramino Roy Chatterji, organizzate dalla Loggia della Società teosofica, erano affollatissime. Dopo aver pubblicato un paio di articoli sull’argomento, Giovanni tramite Arbib entra in contatto con la Società. Fondata nel 1875 a New York da Helena Petrovna Blavatsky, dal 1895 era presieduta da Annie Besant, ex femminista e con un passato nel movimento dei “liberi pensatori”. Le sue conferenze erano frequentate da Leopoldo Franchetti, Luigi Bodio, Laura Minghetti. Ma occultisti, teosofi e spiritisti amavano incontrarsi soprattutto nel salotto di via Gregoriana della baronessa Emmelina Sonnino de Renzis, sorella di Sidney Sonnino e fanatica seguace dell’antroposofia di Rudolf Steiner. Sul finire dell’Ottocento, comunque, la Società poteva contare adepti quasi in ogni regione della penisola. Del resto, il rapido successo dell’occultismo legato alla massoneria aveva alle spalle – in particolare nel mezzogiorno – una lunga tradizione carbonara e anticlericale della sinistra risorgimentale.
Divenuto membro della Loggia capitolina nel 1900, Giovanni inizia l’apprendimento del catechismo teosofico sotto la guida di Isabel Cooper Oakley, fedele discepola della Besant. L’affiliazione gli spalanca le porte di un ambiente cosmopolita, popolato da munifiche nobildonne europee e americane.

Impara così l’inglese e il francese. Studia il sanscrito, legge i testi fondamentali della letteratura orientalistica, si accosta al buddismo. Tuttavia, già nel 1902 comincia a prendere le distanze dal “delirante tecnicismo pseudoscientifico” della Società. Il dissenso esploderà nel 1905, quando decide di uscirne in modo clamoroso. In realtà, la teosofia di cui si era invaghito – e che altro non era che un’eresia del protestantesimo – non poteva rispondere alla sua richiesta di conciliare due elementi in apparenza contraddittori e lontani dall’ortodossia luterana e calvinista, ma costitutivi di un filone importante della Riforma: il misticismo e il razionalismo.

Sulla scelta di lasciare la Società aveva influito anche una ragazza russa conosciuta due anni prima: Eva Oscarovna Kühn. Tolstoiana e vegetariana, studiosa di Henry David Thoreau e di Arthur Schopenhauer, era stata introdotta nella Loggia romana dalla connazionale Sasa Profan. Lì aveva incontrato Giovanni, subito attratto dalla sua femminilità e dalla sua vasta cultura, in cui però non c’era posto per una detestata teosofia. Dopo un rapporto assai tormentato, si sposeranno nel 1907 con rito valdese. Dalla loro unione nasceranno quattro figli: Giorgio (1907), Adelaide (1910), Antonio (1916) e Pietro (1918). La “bohème di casa Amendola” – la definizione è di Giorgio – sarà segnata da ristrettezze economiche, da continui cambi di abitazione e dal carattere estroso e ribelle di Eva. Un’esistenza burrascosa, la sua, tra acute crisi nervose e ardenti relazioni sentimentali (famose quelle con Giovanni Boine e Filippo Tommaso Marinetti), mai clandestine anche a rischio di una rottura del matrimonio. Il marito ne era ovviamente addolorato e ferito, ma le conservava sempre il suo affetto e la sua stima.

Ripudiata la teosofia, il fervore intellettuale di Giovanni si dispiega nei campi più disparati. Affascinato dalla poetica dei simbolisti nordici e dalla drammaturgia di Henrik Ibsen, nel 1906 si reca a Mosca, dove sulla rivista Viessy pubblica un articolo in cui stronca l’estetismo dannunziano. Continua a collaborare con il Leonardo, anche se poi contesterà il “misticismo irrazionalista” di Giuseppe Prezzolini. Nel marzo 1906 tiene una conferenza su Jean Jaurès a Palazzo Giustiniani, che testimonia la sua adesione alla massoneria (l’abbandonerà nel 1908). Nello stesso anno soggiorna con Eva a Berlino e Lipsia, dove segue i corsi di Wilhelm Wundt, fondatore di un celebrato laboratorio di psicologia sperimentale. Pochi mesi prima aveva conosciuto Benedetto Croce, del cui discorso filosofico apprezzava l’impegno civile ed etico, ma non la svalutazione della scienza e della religione. Sarà proprio la condanna crociana del modernismo a scavare un fossato tra i due. Secondo il filosofo abruzzese, esso altro non era che un “fanciullo fastidioso” che si interponeva fra un adulto, l’idealismo, e un vecchio ancora robusto,il cattolicesimo. Per il giovane Amendola, invece, rappresentava “la democrazia religiosa. […] La formula riassuntiva Dio e popolo [di Mazzini] contiene in sostanza la dottrina cattolica del modernismo”.

Nell’ottobre 1909 Giovanni torna con la famiglia a Firenze per dirigervi la Biblioteca filosofica. Vi resterà tre anni, tormentato da gravi difficoltà finanziarie e da cocenti delusioni. La più scottante sarà il tramonto del progetto di una rivista di studi religiosi di ispirazione modernista, ideata da Alessandro Casati e di cui doveva essere il direttore. Nell’autunno 1911 ha un ruolo di primo piano nell’orientare la Voce prezzoliniana (Gaetano Salvemini dissenziente) a favore della spedizione in Libia voluta da Giovanni Giolitti. Nel luglio 1912 – auspice Mario Missiroli – entra nella redazione politica del Resto del Carlino. Scrive articoli sul “parossismo di italianità” di Vincenzo Gioberti e si contrappone vivacemente al meridionalismo conservatore di Antonio Salandra. Alla vigilia delle elezioni del 27 ottobre 1913 (le prime a suffragio pressoché universale), dominate dal “patto Gentiloni”, auspica una “concentrazione di centro”, sollecita i radicali a schierarsi con Giolitti e a staccarsi dai socialisti. Visti i risultati delle urne, si apre all’ingresso dei cattolici nella vita nazionale, ma è contrario alla costituzione di un partito confessionale. Propugna un liberalismo non “ateo”, ma che “si ricongiunga strettamente all’anima politica del Risorgimento”.

L’impegno giornalistico, comunque, non lo distoglie dalle aspirazioni accademiche. Libero docente di Filosofia teoretica nella primavera del 1913, l’anno successivo – per interessamento di Giovanni Gentile – ottiene la stessa cattedra all’Università di Pisa. Ma, assunto al Corriere della Sera, rinuncia definitivamente alla carriera accademica e si consacra all’attività politica. Nel frattempo, aveva raccolto in “Etica e biografia” un gruppo di saggi che possono essere considerati una specie di espressione conclusiva del suo pensiero. In essi viene elaborata quell’etica della decisione che, ispirata dalle letture di Søren Kierkegaard e di Carlo Michelstaedter, di lì a poco diventerà uno dei temi principali della filosofia europea tra le due guerre.

Luigi Albertini aveva chiamato Giovanni all’ufficio romano del Corriere della Sera (nel giugno 1914) perché ne stimava la statura morale e intellettuale, e perché era in sintonia col suo progetto di costruire uno schieramento riformatore alternativo alle tendenze nazionaliste della destra liberale. Inoltre, entrambi attribuivano all’intervento italiano al fianco dell’Intesa il senso di una “scelta di civiltà”, coerente con le ragioni del liberalismo europeo. Ma l’interventismo amendoliano era distante dalle interpretazioni del conflitto con la Triplice come quarta guerra d’indipendenza. Lo considerava piuttosto come un passaggio storico inevitabile, che però non sarebbe riuscito a sollevare il paese dalla sua mediocrità.

Tenente di artiglieria sul fronte dell’Isonzo, è tra i primi a denunciare sia le responsabilità del Comando supremo nell’andamento disastroso delle operazioni belliche, sia la ferocia dei metodi usati per mantenere la disciplina tra le truppe. Alla vigilia di Caporetto, rientrato dalla trincea goriziana dopo essersi meritata una medaglia di bronzo al valor militare, nel gennaio 1918 scrive ad Albertini una lettera che era uno spietato atto di accusa contro il generale Luigi Cadorna, nella cui disfatta vedeva rispecchiata la bancarotta delle classi dirigenti. Alla vigilia delle elezioni del novembre 1919, non ha dubbi: “[…] Noi vogliamo conservare le forme essenziali della nostra vita politica, ma vogliamo nel tempo stesso che la materia di essa sia profondamente rinnovata, anzi rivoluzionata; […] alla direzione dello stato […] debbono essere chiamati nuovi ceti ed uomini nuovi”. E’ un passo del discorso pronunciato a Mercato San Severino, il collegio del Salernitano dove era candidato nella lista nittiana della “Stella a cinque punte”. Amendola si riconosceva nel programma di Francesco Saverio Nitti, che puntava a includere il mezzogiorno in una strategia industrialista e a unire i socialisti riformisti e i popolari in un’alleanza di centrosinistra; ma non ne condivideva l’adesione alla riforma del voto in senso proporzionalistico. In essa, infatti, scorgeva “un vero e proprio mutamento di regime” che minava le basi dello stato liberale, in quanto creava partiti artificiosi e accentuava le fratture politiche.

Quando Giolitti – il 16 giugno 1920 – forma il suo quinto governo, il paese è scosso da lotte sociali aspre. A settembre gli operai occupano le fabbriche con le armi. Sul Corriere del 9 novembre, il commento di Amendola è cupo: “All’occupazione delle fabbriche e al controllo sindacale, conquistato per vie extralegali, è seguito immediatamente un preoccupante collasso morale della borghesia produttrice; e al dilagare dell’agitazione massimalista […] è seguita nel paese una potente e profonda reazione in difesa dell’ordine sociale e statale vigente, attraverso la quale si manifesta, con disperata energia, l’istinto di conservazione nazionale”. Più avanti si scaglierà contro quei falsi democratici che speravano di “raccogliere i frutti dell’impeto demolitore del fascismo, prendendo il bottino dal suolo devastato e insanguinato della patria”, fingendo di ignorare che “se il fascismo prevarrà, la forma di Stato da esso voluta sarà l’antitesi di quella liberale”.

Queste frasi furibonde sono dell’agosto 1922, anno in cui Amendola progetta un nuovo quotidiano, il Mondo; un nuovo partito, il Partito democratico italiano; un nuovo dicastero di unità democratica. Poi, pur mostrandosi tiepido nei confronti del Gabinetto del giolittiano Luigi Facta, accetta di entrarvi come ministro delle Colonie. Dopo la “marcia su Roma” (28 ottobre) e l’insediamento del governo Mussolini (16 novembre), mette a punto la sua linea di opposizione costituzionale. Nei primi mesi del 1923, sul Mondo propone un’alleanza con i socialisti, reduci dalla scissione dell’ala riformista, e con i popolari di Luigi Sturzo. Nel mirino della sua critica, però, adesso c’è l’infatuazione collettiva per il maggioritario (la legge Acerbo era in gestazione). Il 12 luglio interviene alla Camera, riaffermando la propria fede nel pluralismo e nell’apertura agli strati popolari, vocazione storica della democrazia liberale. Il 20 marzo 1924, nella sede napoletana del Comitato delle opposizioni, suggerisce una riforma istituzionale sulla falsariga dell’ordinamento statunitense. Ad aprile viene rieletto deputato nel collegio unico della Campania, grazie al buon rapporto stabilito con alcuni settori della borghesia intellettuale, degli ex combattenti e dei ceti medi del sud. Nondimeno, le urne avevano confermato che il partito amendoliano rappresentava solo una piccola e debole minoranza di fronte all’avanzata del fascismo.

Commentando l’assassinio di Giacomo Matteotti, il 26 giugno 1924 Amendola scrive sul Mondo: “Quanto alle Opposizioni, è chiaro che in siffatte perduranti condizioni, esse non hanno nulla da fare in un Parlamento che manca della sua fondamentale ragione di vita. […] Quando il Parlamento ha fuori di sé la milizia e l’illegalismo, esso è soltanto una burla”. L’ipotesi di secessione parlamentare, passata alla storia col nome di Aventino, è già in campo. Palmiro Togliatti, con un paradossale rovesciamento del giudizio che ne darà la storiografia di matrice gramsciana, il 28 agosto ne è un testimone acuto: “Amendola è il capo riconosciuto di quello tra i gruppi dell’opposizione antifascista borghese che compie, tra gli altri, una funzione di guida e direzione politica. E’ stato il giornale di Amendola, il Mondo, che ha svolto la manovra di staccare dal fascismo i fiancheggiatori liberali, mentre altri giornali si dedicavano di preferenza allo sviluppo della campagna scandalistica attorno al processo Matteotti”.
Come è noto, la manovra a cui accenna Togliatti non avrà successo – anche per le incertezze della destra liberale, della minoranza salandrina in particolare, e per le divisioni interne ai “secessionisti”. Il 3 gennaio 1925, il “colpo di stato” di Mussolini sancisce il fallimento dell’Aventino. Da Piero Gobetti a Salvatorelli, comincia una gara per addebitare ad Amendola l’errore di aver condotto una battaglia moralmente rigorosa, ma priva di qualunque efficacia politica. Capone mette giustamente in evidenza il peso che questa liquidazione sommaria dell’esperienza aventiniana ha avuto nella maggioranza degli storici, anche di diversa ispirazione. Per altri, invece, se guardiamo alle forze che ne costituivano il nerbo, siamo in presenza “non solo di una sorta di centrosinistra ante litteram, […] ma anche e soprattutto di una piattaforma comune con cui socialisti, cattolici e liberali riconoscono insieme il valore prioritario della democrazia e dello stato di diritto […]. Tutto questo può oggi sembrarci scontato: non lo era evidentemente nel momento in cui, mentre il fascismo si apprestava a diventare dittatura, Croce si preoccupava che cadesse troppo in fretta e Gramsci lo accomunava nella condanna al liberalismo e alla socialdemocrazia” (Giovanni Sabbatucci, “Il delitto Matteotti”, in “Novecento italiano”, Laterza, 2008).

Calato il sipario sull’Aventino, nella prefazione a “Per una nuova democrazia” (1925) Amendola mette sul banco degli imputati il dogma dello stato-Leviatano, nato col giacobinismo e incarnatosi nel bolscevismo e nel fascismo. Esso è “il tremendo falansterio, […] il regime del ‘Commissario’ instaurato in ogni campo della vita e sostituito a tutte le leggi della vita”. Il fascismo – aggiunge – non ha mirato tanto “a governare l’Italia, quanto a monopolizzare il controllo delle coscienze. Non gli basta il possesso del potere: vuole […] la ‘conversione’ degli italiani […]. Non promette la felicità a chi non si converte, non concede scampo a chi non si lascia battezzare”.

Non concederà scampo neanche a lui. Già vittima di un sequestro a Salerno il 15 dicembre 1923, il 20 luglio 1925 viene aggredito da una quindicina di sicari armati di bastone all’hotel Pace di Montecatini. Per curarsi, alla fine dell’estate si reca a Parigi. Rientrato a novembre in Italia, agli inizi del 1926 decide di tornarvi per sottoporsi a visite più approfondite. Viene operato ai polmoni. I chirurghi trovano un ematoma condizionato “dal violento traumatismo prodotto sulla regione corrispondente all’emitorace sinistro nel luglio 1925”. Amendola viene allora trasferito a Cannes, nella clinica Le Cassy Fleur. Il figlio Giorgio così ricorderà la sua fine, sopraggiunta all’alba del 7 aprile: “Nelle ultime ore, partiti tutti gli amici, eravamo rimasti nella stanza la Pavlova, Ruini e io. Il rantolo diventava sempre più straziante, poi egli si sollevò, si guardò attorno, levò una mano per farmi una carezza, ricadde, e fu tutto”.

di Michele Magno
Il FOGLIO

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Legge di Stabilità come le Finanziarie omnibus


di Nunzio Bevilacqua

24 dicembre 2013POLITICA
“In primis, va detto che non si intravede proprio quella, più volte decantata, strategia di Sistema-Paese in una Legge di stabilità che, nonostante la denominazione attuale, sembra assomigliare per molti versi più alle più tradizionali leggi finanziarie “omnibus” dei tempi passati – spiega attraverso una nota l’avvocato Nunzio Bevilacqua, vicepresidente dell’Associazione Nazionale Lavoro Azienda Welfare (Anlaw) –Penso a quel lungo stuolo di stanziamenti micro-settoriali che nel loro insieme non solo indeboliscono la manovra ma risultano essere, in questo momento storico, quantomeno inopportuni”.

“Discutibile l’indecisione complessiva su vari temi – prosegue il vicepresidente della Anlaw – dalla riformulazione in corsa della web tax, al superamento di un emendamento migliorativo della Tobin Tax per ultimo, ma non per importanza, il balletto sulla tassazione immobiliare divenuto “indecente” e che tra i ripensamenti vari non sembra aver risolto definitivamente la questione sull’erede “geneticamente modificato” dell’Imu che oggi si chiama Iuc, il nuovo balzello che probabilmente non riuscirà neanche ad assicurare le risorse per gli enti locali”.

“Cosa manca? A mio parere – continua Bevilacqua – soprattutto quella ridefinizione del perimetro di azione dello Stato che andrebbe operato formulando un piano pluriennale, non solo “interventini” d’emergenza, di riduzione della pressione fiscale e contributiva finanziato da una concreta e intelligente attuazione della spending review e dal minore onere per interessi derivante da un programma significativo e irreversibile di dismissione del patrimonio pubblico. Non andare avanti mentre tutti i Paesi europei procedono, seppur lentamente – conclude Bevilacqua – vuol dire restare indietro e questo è un lusso che oggi non possiamo più permetterci”.

L'Opinione

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Iraq, Natale è festa nazionale. Il patriarca Sako: messaggio di speranza per tutti


2013-12-25 Radio Vaticana
In Iraq, il governo, accogliendo la richiesta dal patriarcato caldeo, ha proclamato per la prima volta il Natale festa nazionale. Una decisione che ha molto confortato la minoranza cristiana che dal 2003 ha visto una devastante diaspora che ha ridotto da 2 milioni a 300 mila i discepoli di Cristo in questa terra. Ma il Natale – sottolinea al microfono di Amedeo Lomonaco il patriarca dei caldei Mar Louis Raphael I Sako – continua ad essere un messaggio di speranza per tutti:
R. – C’è la buona notizia, c’è un messaggio. Ed oggi il messaggio globale, non solo per i cristiani ma per tutti, è la pace sulla Terra. E’ una chiamata, dunque, forte perché gli uomini aprano gli occhi su un futuro migliore.
D. – S’intravede comunque una luce, una via d’uscita, finalmente la pace?
R. – C’è una presa di coscienza da parte di tanti musulmani. La popolazione musulmana è brava ed ha anche sofferto molto per le azioni dei terroristi. Il governo ha fatto un gesto molto bello: ha piantato un albero di Natale in un quartiere in parte cristiano, dove ci sono delle chiese. E’ stato un gesto simbolico molto importante.
D. – Uno dei momenti di svolta sarà quando i cristiani torneranno in Iraq e non lasceranno più il Paese…
R. – Noi dobbiamo lavorare in Iraq su questo progetto, ma anche la comunità internazionale deve aiutarci. Ma mi domando: dopo dieci anni, chi rimarrà? Questa presenza cristiana è molto importante per tutti, anche per i musulmani. Tutti devono lavorare affinché i cristiani vivano con dignità. E forse l’unico progetto che sia capace di integrare tutti è la cittadinanza e non la religione. L’Iraq è un Paese per tutti. Bisogna distinguere fra religione e politica.

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Il card.Quellet: la rinuncia di Benedetto XVI ha davvero aperto una svolta nella storia della Chiesa




L’anno che si sta concludendo si può davvero definire straordinario per la vita della Chiesa. La rinuncia al ministero petrino da parte di Benedetto XVI e la successiva elezione di Papa Francesco sono eventi che hanno aperto grandi possibilità per la Chiesa. E’ quanto sottolinea il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, intervistato da Hélène Destombes:

R. - La démission du Pape Benoît XVI a ouvert de grandes possibilités…
Le dimissioni di Papa Benedetto XVI hanno aperto delle grandi possibilità. E’ per questo che io ritengo che il vero grande evento di questo anno che si sta ormai concludendo siano state proprio le dimissioni del Papa, un gesto veramente nuovo. E’ stata la più grande novità nella storia della Chiesa, che ha testimoniato una grande umiltà e, allo stesso tempo, una grande fiducia nello Spirito Santo per il futuro delle cose. Bisogna essere molto riconoscenti a Papa Benedetto XVI per aver aperto questo orizzonte e per aver reso possibile questa novità di Papa Francesco. Io credo che vi sia una continuità tra la prima novità e tutte quelle che Papa Francesco ha poi inaugurato. Guardando al 2013, ritengo che siamo in un momento di grande svolta nella storia della Chiesa, che io descrivo come pastorale riguardo proprio alla figura di Papa Francesco.

D. - La riforma è proprio nel vivere il Vangelo e nell’essere cristiano?

R. - Je crois que c’est tout d’abord l’attitude-même du Papa François; cette volonté…
Credo che sia l’attitudine stessa di Papa Francesco; questa volontà di stabilire un contatto nuovo, più vicino al Popolo di Dio. La prima riforma è questa: andare al di là di tutte le forme, di tutti i protocolli per stabilire un contatto immediato. E facendo questo, fornisce anche a tutti i vescovi un modello di prossimità pastorale, di ricerca di una presenza pastorale che sia calorosa, che sia misericordiosa, che porti consolazione e che doni una nuova speranza. C’è nell’atteggiamento e nei gesti di Papa Francesco una novità e una promessa. Ma aggiungerei anche: quello che mi sembra essere molto importante nel 2013 è la percezione di Papa Francesco nell’opinione pubblica mondiale. Questo è un evento straordinario di evangelizzazione.

D. - E’ stato, tra l’altro, da poco eletto personaggio dell’anno dalla rivista americana “Time”….

R. - Exactement, c’est un signe de cette influence, de ce besoin d’espérance qu’il y a…
Esattamente. E’ il segno di questa influenza, di questo bisogno di speranza che c’è nell’umanità e che ha trovato nella figura di Papa Francesco il suo punto di riferimento. E’ una grande “novella”, è una buona novella! Credo che tutti noi dobbiamo rallegrarcene.

D. - Sin dall’inizio del suo Pontificato, un vero legame si è creato con i fedeli, un legame d’amore, possiamo anche dire un interesse… C’è questo stesso interesse all’interno della Chiesa, in seno alla Curia? Com’è percepito il suo messaggio e questo suo atteggiamento sorprendente?

R. - Je crois qu’il ya beaucoup de joie à constater la popularité du Pape. C’est un bonne…
Credo che ci sia una grande gioia nel constatare la popolarità del Papa. E’ una buona popolarità, che non è basata semplicemente su cose superficiali. Certamente questo ci interroga e ci obbliga anche a cambiamenti di comportamento. Il Santo Padre vuole la riforma di una certa mentalità clericale con ambizioni ecclesiastiche o ambizioni mondane. Combatte questo carrierismo! Io credo che questo faccia molto bene alla Chiesa, a tutti i livelli, cominciando dalla Curia Romana. Siamo veramente in un momento grazia e spero che lo Spirito Santo gli dia la salute e la collaborazione di cui ha bisogno per portare avanti la riforma della Chiesa e la nuova evangelizzazione.

D. - Quest’anno 2013 è stato - per lei - caratterizzato quindi dal passaggio del Pontificato di Benedetto XVI. Lei è uno dei suoi più prossimi collaboratori ed è accanto a Papa Francesco. Come ha vissuto questo passaggio? Come sta vivendo questi cambiamenti, anche se c’è una continuità?

R. - La simplicité du Pape François et le fait que je le connaissais…
La semplicità di Papa Francesco e il fatto che io lo conosca già da prima - noi eravamo amici - rende la nostra collaborazione straordinariamente semplice. E’ in piena armonia. E’ una grande gioia per me collaborare con lui, supportandolo al massimo. L’umanità ha bisogno di una figura paterna, una figura vicina; una figura che sia - al tempo stesso - riferimento morale sicuro, ma anche calorosa e che risvegli la speranza!




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va

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Roger Scruton ci racconta il suo ultimo libro

25 dicembre 2013 - ore 10:30

Dio è morto a Stalingrado

“Il cristianesimo è il più grande progresso della storia”


“Le attuali discussioni sulla religione nascono, da un lato, come una risposta al confronto tra cristianesimo e scienza e dall’altro lato come una risposta agli attacchi dell’11 settembre”. Si apre così “The Soul of the World”, il manifesto contro il neo ateismo di Roger Scruton, docente alla Saint Andrews University, culla di regalità britannica, definito dal Wall Street Journal “il filosofo più famoso d’Inghilterra”, fondatore della Salisbury Review (la più prestigiosa rivista del conservatorismo inglese) e autore di trenta libri, fra cui “The Meaning of Conservatism” (la bibbia della rivoluzione Thatcher). In uscita per le edizioni di Princeton, il libro di Scruton ha una tesi esplosiva e apologetica, inusitata nella pubblicistica filosofica contemporanea: il cristianesimo è superiore a ogni altra religione, perché per la prima volta nella storia dell’umanità una religione non è stata incentrata sui sacrifici di altri esseri umani, ma sull’autosacrificio.

Scruton, qui a colloquio con il Foglio, è stato spinto all’analisi del meccanismo e del fenomeno religioso, dai Vangeli a Feuerbach, dal fatto che “la nostra situazione attuale è senza precedenti nella storia del mondo. Le società occidentali sono organizzate da istituzioni e leggi laiche, da usi e costumi laici, e non c’è, o quasi, accenno al trascendente, sia come fondamento dell’autorità temporale sia come ultima corte d’appello per le nostre controversie. Questo stato di cose in sé non è nuovo: era così anche nel XIX secolo quando coesisteva con una fede ampiamente sentita dalla gente e un rispettoso scetticismo delle élite. Quello che invece è nuovo è il diffuso ripudio del sacro, la cacciata delle ombre del divino dalla vita della città, dalla vita del corpo, dalla vita delle emozioni e dalla vita della mente. Si deridono relazioni sacramentali come il matrimonio, che è stato ristrutturato sotto forma di contratto; consuetudini e cerimonie non hanno più un loro posto nell’esistenza contemporanea e insieme al sacro svaniscono le virtù dell’innocenza, del rispetto e della vergogna”.

Il desiderio di sacrificio è radicato nel profondo di ogni essere umano, scrive Scruton. “Ma la grande differenza è tra le religioni che richiedono il sacrificio di sé e le religioni (come quella degli aztechi), che richiedono il sacrificio di altri. Se esiste qualcosa che possa essere chiamato il progresso nella storia religiosa dell’umanità, risiede nella pretesa morale del cristianesimo, che ha spostato il sacrificio dagli altri al sé. Il cristianesimo ha invertito il sacrificio, da allora è stato il sacrificio di sé per gli altri e non più il sacrificio degli altri per sé. Nel giudicare le religioni siamo profondamente consapevoli che i sacrifici che richiedono sono i sacrifici degli altri o i sacrifici di sé. Questo è entrato nella nostra consapevolezza attraverso le azioni dei ‘martiri’ islamisti”.

Scruton nel libro scrive che l’islam non è una spiegazione del mondo, della sua creazione e del suo significato. “L’islam ha origine in un bisogno di sacrificio e obbedienza. Non c’è dubbio che gli islamisti abbiano fatto proprie molte credenze metafisiche, tra cui la convinzione che il mondo sia stato creato da Allah. Ma essi credono anche di essere stati chiamati a sacrificarsi in nome di Allah, e che le loro vite avranno acquisito un significato quando saranno state gettate via per amore di Allah. L’islamismo è dunque un grido disperato rivolto a Dio perché riveli se stesso, è la speranza di riuscirci attraverso un numero incredibile di morti”.

Scruton tira in ballo Jean-Jacques Rousseau per spiegare l’ideologia contemporanea: “Rousseau ha eretto un Dio che non è nel mondo, ma rimosso da esso, le cui tracce sulla terra si trovano in un passato così lontano che ora sono indiscernibili. Questo spiega lo zelo straordinario con cui i seguaci di Rousseau hanno intrapreso la loro rivoluzione. La loro era una guerra santa, una guerra contro la superstizione nel nome di Dio. Ma Dio non era altro che un nome. L’‘Essere supremo’ di Robespierre, la divinità astratta di Voltaire, tutti questi termini denotano non Dio, ma il buco a forma di Dio che deve essere riempito da sacrifici umani”. Secondo Scruton, la moderna bioetica stessa è una forma di sacrificio umano perché “impegnata nel mantenimento dei vivi a spese dei morti e dei non nati, una sorta di hubris in cui adesso è l’unico momento che conta. Gli scienziati stanno tentando di svelare il segreto della creazione, in modo da prenderlo in carico. Questo progetto, salutato da persone lungimiranti come la vittoria finale sulla malattia, la sofferenza e la morte stessa, è stato predetto e respinto da Aldous Huxley nel suo romanzo ‘Brave New World’”.

Il messaggio di Huxley, spiega Scruton, è davvero religioso: “Se gli esseri umani riusciranno a svelare il proprio codice genetico, egli predisse, useranno questa conoscenza per sfuggire alle catene della natura. Ma così facendo, si legheranno a catene fatte da loro stessi. Le catene della natura sono quelle che Dio ha creato. Esse sono chiamate ragione, libertà, moralità e scelta. Le catene umane predette da Huxley sono di una composizione molto diversa: sono realizzate interamente con la carne e i piaceri della carne. Non c’è sofferenza nel ‘Brave New World’, nessun dolore o dubbio o terrore. Né vi è la felicità. E’ un mondo di piaceri affidabili da cui sono state bandite ogni speranza e ogni gioia. Gli abitanti di Huxley sono campioni da laboratorio, non nascono ma sono prodotti, in conformità con i requisiti di un governo benigno e razionale. Non esiste una cosa come il successo o il fallimento e tutti sono mantenuti allo stesso livello di soddisfazione da un sistema di intrattenimento di massa. Solo una cosa potrebbe distruggere l’equilibrio e questa cosa è la riproduzione sessuale, con il suo esito genetico imprevedibile. Per evitare questo, le autorità incoraggiano la promiscuità universale combinata con la contraccezione universale, assieme alla fornitura sponsorizzata dallo stato di stupefacenti. Così si mantiene ogni cittadino in uno stato di acquiescente gentilezza. E’ il paradiso degli utilitaristi, in cui il piacere è stato ottimizzato e il dolore superato. Noi istintivamente rifiutiamo questa nuova forma di vita come mostruosa, disumana”.

Secondo Scruton, anche “l’aborto di massa ha reintrodotto i sacrifici umani, ma è diverso dall’infanticidio con cui si sfamava Moloch con i bambini”. E’ quasi peggio, dice Scruton: “L’aborto è scelto per far sì che il volto della vittima non sia più visto da colui che decide”. Il riferimento di Scruton è al dio a cui venivano offerti i primogeniti per essere bruciati vivi. Nel libro, Scruton critica la concezione evoluzionistica, “che ad esempio non spiega il nostro orrore per l’incesto”, oppure che non sa addurre spiegazioni plausibili sull’origine del linguaggio: “Non sappiamo come sia nato. Ma sappiamo che il linguaggio ci permette di capire il mondo come nessun animale potrebbe capirlo. Il linguaggio ci permette di distinguere la verità e la menzogna, passato, presente e futuro, possibile, reale e necessario, e così via”. Oppure l’altruismo: “In tutti i casi l’altruismo nelle persone comporta una sentenza, ovvero ciò che è male per l’altro è qualcosa di cui ho un motivo per porre rimedio. E l’esistenza di questo pensiero è proprio ciò che non si spiega con la teoria che ci dice che l’altruismo è anche una strategia dominante nel gioco della riproduzione. Negli ultimi due decenni il darwinismo ha invaso il campo delle scienze umane in un modo che Darwin stesso avrebbe difficilmente potuto prevedere. Nelle mani dei loro divulgatori, queste scienze invitano le persone a credere che tutte le peculiarità della condizione umana abbiano la propria origine nel nostro make-up genetico e che una scienza completa del gene umano avrebbe mostrato i nostri pensieri e gli ideali più preziosi. Ma Kant ha ragione, un essere razionale ha motivo di obbedire alla legge morale a prescindere dal vantaggio genetico”.

Che cosa ci rende umani?, si chiede Scruton. “Il fatto che soltanto noi poniamo domande. Tutti gli animali hanno interessi, istinti e concezioni. Ma soltanto noi rifiutiamo di essere definiti dal mondo in cui viviamo. Nei monasteri, nelle biblioteche e nelle corti dell’Europa medievale, le grandi domande erano costantemente dibattute. Le persone venivano messe al rogo per le loro domande e altre attraversavano terra e mare per punire le persone per le loro risposte. Nel Rinascimento e nell’Illuminismo alle grandi domande sono seguite morte e distruzione, come nelle guerre religiose e nella Rivoluzione francese. Il comunismo e il fascismo sono iniziati in filosofia, entrambi hanno portato all’omicidio di massa. La nostra natura di mettere in discussione sembra avere un costo enorme. Ma dovremmo allora rinunciare all’abitudine di fare domande? Io credo di no. Sarebbe come smettere di essere pienamente umani”. E questa sete di domande ha un’origine religiosa, appunto.

Secondo Scruton, la religione è, infatti, parte integrante della struttura della mente umana. “E’ evidente almeno da Durkheim che la religione è un fenomeno sociale e che la ricerca individuale di Dio risponde a un bisogno profondo della specie. Di fronte allo spettacolo delle crudeltà perpetrate nel nome della fede, Voltaire gridò ‘Ecrasez l’infâme!’. Schiere di pensatori illuminati lo hanno seguito, dichiarando la religione organizzata come il nemico del genere umano, la forza che eccita e autorizza l’omicidio. La religione però non è la causa della violenza, ma la soluzione a essa. Lo stesso si può dire per l’ossessione per la sessualità: la religione non ne è la causa, ma un tentativo di risolverla”.

Anche il laicismo, dice Scruton, ha una natura religiosa, di sostituto del cristianesimo: “Dopo un periodo caratterizzato da cinismo e dubbio, la seconda ondata di secolarizzazione ha dato vita a un bizzarro simulacro della struttura mentale religiosa. Il nuovo disgusto nei confronti dell’eresia e il desiderio di ortodossia fanno pensare che l’ideologia laica stia tentando ora di colmare la lacuna lasciata dalla vecchia forma di appartenenza sociale”. Scruton demolisce i tentativi del nuovo ateismo di caratterizzare la religione come irrazionale: “L’esperienza del sacro non è un residuo irrazionale di paure primitive né una forma di superstizione che un giorno sarà cacciata via dalla scienza”.

Scruton dice che il volto dell’uomo è il depositario della condizione umana: “Il volto umano ha una sorta di ambiguità. Esso può essere visto in due modi, come veicolo per la soggettività che brilla in esso e come una parte del corpo umano. La tensione qui viene alla ribalta nel gesto del mangiare, come è stato sostenuto da Leon Kass e Raymond Tallis. A differenza degli animali, noi non siamo spinti con le nostre bocche verso il cibo. Eleviamo il cibo verso la bocca, mantenendo la postura eretta che ci permette di dialogare con i nostri vicini”. Poi c’è il sorriso. “Gli animali non sorridono, nel migliore dei casi fanno una smorfia. Nessun altro animale ride”.

Soltanto l’uomo prova vergogna del proprio corpo. “C’è una intuizione importante contenuta nel libro della Genesi, per quanto riguarda il luogo della vergogna nella nostra comprensione del sesso. Adamo ed Eva hanno mangiato il frutto proibito, e ottenuto la ‘conoscenza del bene e del male’, in altre parole la capacità di inventare per sé il codice che governa il loro comportamento. Si nascondono, coscienti per la prima volta dei loro corpi come oggetti di vergogna. Questa ‘vergogna del corpo’ è una sensazione straordinaria che solo un animale consapevole potrebbe avere”.

Scruton torna, infine, su concetti che aveva già esposto nella sua autobiografia culturale, “Gentle Regrets”: “Che cosa perdiamo esattamente noi europei se la religione cristiana si allontana da noi? La gran parte del genere umano non è in grado di vivere priva di religione, senza smarrirsi nel terribile nichilismo che ha per due volte spazzato tutto il nostro continente. L’ateismo ha trovato la sua prova definitiva a Stalingrado, dove due filosofie ateistiche si fecero la guerra con l’intenzione di distruggersi. Non ci fu pietà e tutto ciò che era umano venne cancellato. Il nichilismo alla fine fu il solo risultato”.

FOGLIO QUOTIDIANO
di Giulio Meotti

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