giovedì 30 aprile 2015

Bartolomeo I: lotta globale al fondamentalismo


 
“La scomparsa dei cristiani d’Oriente è una tragedia umana. È una questione di portata storica e di civiltà allo stesso tempo. La minaccia della loro scomparsa è globale, reciderebbe anzitutto le radici spirituali necessarie per l’ispirazione di un’epoca attraversata da profondi cambiamenti”. È un passaggio della lettera che il patriarca ecumenico, Bartolomeo I, ha inviato ai partecipanti all’incontro internazionale “Cristiani in Medio Oriente: quale futuro?”, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e che si è aperto ieri a Bari. Nel testo, letto nella Veglia per la pace celebrata nella basilica di san Nicola, il patriarca di Costantinopoli - riferisce l'agenzia Sir - ha ricordato che “i cristiani d’Oriente sono soprattutto gli eredi del cristianesimo originario forgiato nel paesaggio del Mediterraneo orientale che hanno saputo, con le loro tradizioni spirituali, linguistiche, culturali, plasmare ciò che il cristianesimo mondiale e contemporaneo è diventato”.
La coesistenza delle comunità cristiane d'Oriente con il mondo musulmano
La memoria di cui sono portatrici queste comunità cristiane, “porta le tracce di una coesistenza con il mondo musulmano che non è più accettabile agli occhi dei fondamentalisti”. Il futuro dei cristiani d’Oriente, per Bartolomeo, “risiede nel salvaguardare la loro azione di mediazione nei confronti del radicalismo di alcuni musulmani che li considerano come cavalli di Troia dell’Occidente. Ciò equivale a misconoscere la vita dei cristiani orientali e il loro profondo senso di libertà e la loro capacità di resilienza”.
La crisi che attraversa il Medio Oriente può servire come un kairos ecumenico
Una soluzione politica per il futuro dei cristiani d’Oriente, ha aggiunto Bartolomeo I, può “positivamente” avvalersi dell’”ecumenismo del sangue” e delle “sofferenze redentrici che costituiscono una nuova realtà nella nostra ricerca dell’unità dei cristiani. La crisi che attraversa il Medio Oriente - ha sottolineato il patriarca - può servire come un kairos ecumenico. Perché nel sangue e nelle lacrime si costruisce la consapevolezza di un destino comune atto ad alleviare le sofferenze della separazione”.
Una lotta globale contro il fondamentalismo assicurerà la presenza cristiana
Chiudendo il suo messaggio il patriarca ha esortato la comunità internazionale “ad agire in conformità al diritto internazionale perché i cristiani d’Oriente non diventino solo un capitolo nei manuali di storia che racconta della loro inesorabile scomparsa. I cristiani d’Oriente sono le ‘pietre vive’ di una regione che ha forgiato la sua storia nel pluralismo degli scambi e dei contatti commerciali, ma anche intellettuali e soprattutto spirituali. Oggi, il fondamentalismo si erge contro questa lettura multisecolare. Una lotta globale contro il fondamentalismo - è stata la conclusione - assicurerà la loro presenza permanente in questa regione del mondo in cui è stato coniato il nome cristiano”. (R.P.)

da | Radio Vaticana

Card. Sandri dal primo maggio in Iraq: ridare speranza ai cristiani


 
Dal primo al 5 maggio il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, si recherà in Iraq per portare la benedizione del Papa nonché l’incoraggiamento alle autorità di quel Paese per quanto stanno facendo a sostegno dei cristiani e delle altre minoranze religiose, sottoposte a dura persecuzione. La prima tappa del viaggio sarà la capitale Baghdad, dove celebrerà, nella cattedrale caldea la divina liturgia, e dove incontrerà i rifugiati ospiti di alcune istituzioni ecclesiastiche. Si trasferirà poi a Erbil, nel Kurdistan iracheno, e ad Ankawa, dove risiedono gli sfollati cristiani della piana di Ninive, fuggiti agli attacchi dell’Is. Oggi pomeriggio il cardinale Sandri è a Bari per l'inaugurazione del colloquio internazionale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dal titolo “Cristiani in Medio Oriente: quale futuro?”.  

Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:


 R. – Credo che il titolo di questa riunione ci dia un po’ il profondo senso della domanda che ci fanno i cristiani: quale futuro per loro in questa area del mondo? Con questo ritmo di persecuzione e di dolore molti si pongono questa domanda: “Ma riusciremo a sopravvivere?”. Saranno i cristiani l’elemento di equilibrio? Pur essendo un piccolo gregge, riusciranno a dare quel sale di cui c’è bisogno in tutti i Paesi del Medio Oriente? Ed ecco la risposta, che per me è certa: potranno rimanere e rimarranno! E saranno un vero tesoro per tutti i nostri fratelli musulmani e di altre religioni, che vivono nel Medio Oriente e in Oriente in generale. Questa riunione di Sant’Egidio a Bari e poi il mio prossimo viaggio in Iraq, li vedo sotto la luce esattamente del futuro, però di un futuro di ricostruzione, di ritorno biblico, perché i cristiani continuino ad essere il sale che può dare un senso di equilibrio, di amicizia, di partecipazione a tutte le comunità del Medio Oriente.
D. – C’è, però, il dovere di mettere materialmente fine alle sofferenze dei cristiani…
R. – Sì, certamente. La Chiesa, innanzitutto, lo ricorda continuamente attraverso la voce di Papa Francesco, attraverso la voce di tutti i nostri fratelli dell’Occidente. Questo è un continuo agire della Chiesa cattolica, un agire non solo con la parola, ma con la solidarietà di fronte a questa catastrofe umanitaria. Vediamo come attraverso Cor Unum, attraverso la Caritas Internationalis, la Chiesa cerchi di agire: parola e azione da parte della Chiesa cattolica, specialmente nell’istanza di Papa Francesco, incessantemente al servizio della denuncia di questi fatti gravissimi. C’è poi la responsabilità delle nazioni, di quelli che possono fare o avere un influsso per fermare questa violenza. Poi c’è il dovere di tutte le altre religioni di educare i fedeli a trovare nella propria fede religiosa uno stimolo al dialogo, alla cooperazione, al servizio per gli altri e non all’odio. E mai, assolutamente mai, che sia questa violenza provocata o giustificata dalla fede religiosa.
D. – Quando sottolinea la necessità dell’impegno dei Paesi, intende la responsabilità politica, la responsabilità diplomatica, dell’Occidente?
R. – Sì, è una responsabilità diplomatica. Ci dovrebbero essere tutti gli sviluppi, in certi casi, previsti dal diritto umanitario, quando ci sono delle azioni di interposizione per proteggere le popolazioni che sono a rischio, per proteggere i feriti, gli sfollati. Ci sono diverse forme che si basano sul diritto umanitario, di intervento per dare una protezione umana a tutte queste persone. Io penso, per esempio, alle forze italiane e spagnole che sono in Libano e che stanno alla frontiera con Israele. Ma ci sono tante altre forme che possono essere sviluppate da quelli che hanno il potere di farlo, per attutire le violenze, le sofferenze, soprattutto, cosa che piangiamo tutti, di questi bambini che vivono in questi campi di rifugiati pieni di sofferenza, come sta succedendo in certe zone della Siria, ad esempio. Rimaniamo zitti, non facciamo nulla. Chi può fare queste cose, le dovrebbe fare e non utilizzare la propria potenza o la propria forza per acuire le divisioni, per acuire gli odi, per portare ancora maggiore sofferenza a tutte queste popolazioni.
D. – Lei sarà in Iraq dal primo al 5 maggio, prima a Baghdad e poi ad Erbil nel Kurdistan iracheno, che impronta avrà questo suo viaggio?
R. – Io forse sono un po’ ingenuo, perché vorrei dare al mio viaggio l’impronta di una luce che sorge, di un futuro che deve esistere anche per l’Iraq. E di fatto saranno con me nel Kurdistan le agenzie che aiutano le Chiese orientali e che aiutano tutti (Roaco, Riunione delle opere di aiuto alle Chiese orientali ndr). Vorrei che la presenza di queste agenzie, la mia presenza, fossero una speranza. Forse ci vorrà ancora del tempo, ma vorrei che ci fosse un futuro per l’Iraq e sono sicuro che verrà. Non possono rimanere, infatti, inesaudite tutte le preghiere, da Papa Francesco in poi, che sempre hanno accompagnato questa triste situazione, questo esodo dei cristiani, queste vittime, questi morti in Iraq.

da | Radio Vaticana

Lavoro quotidiano - don Luciano sanvito


Il lavoro della quotidianità esprime il regno di Dio oggi.

Il lavoro di San Giuseppe esprime il segno dell'operato dell'uomo credente che vede l'azione di Dio nella storia lungo la propria vita.

Ogni volta che il lavoro nobilita l'umanità nel presente, anche la storia del Regno di Dio si attua con efficacia e con giusto valore nella vita.

Ecco perché il lavoro di Giuseppe, uomo giusto, ci aiuta a recuperare il senso e il valore della nostra azione per il Regno, affinché sia sempre nel progetto di Dio e rientri nella sua azione di salvezza.

San Giuseppe il lavoratore esprime e richiama l'opera di Dio che si realizza nella storia umana, a favore della quotidianità che riceve una luce e un orientamento nuovo per procedere lungo la strada della vita nuova in Cristo.

San Giuseppe esprime anche come il suo operare e il suo operato siano conformi alla volontà di Dio nella storia, permettendo alla grazia di entrare nella quotidianità attraverso l'opera delle mani dell'uomo, santificata dall'intervento di Dio.

Il lavoro delle azioni umani diventa con san Giuseppe l'opera di disponibilità alla grazia di Dio, permettendo all'azione dello Spirito di essere sempre vicina all'umanità attraverso l'azione del fare quotidiano.



DALLA PAROLA DEL GIORNO

AMICI E SERVITORI DELLA PAROLA 

Giovedì 30 aprile 2015 - IV settimana di Pasqua


“In verità, in verità io vi dico:
chi accoglie colui che io manderò,
accoglie me;
chi accoglie me,
accoglie colui che mi ha mandato.”   


Gv 13, 20
Come vivere questa Parola?

In queste tre righe del Vangelo giovanneo ricorre per ben tre volte il verbo accogliere: un verbo che ti apre a forti significazioni di vita.

E’ la scena dell’uccello madre che accoglie lo svolatino dopo il suo primo volo, è la corolla del fiore che accoglie la vitalità industriosa dell’ape, sono le braccia aperte di una madre o di un padre che accolgono un figlio che chiede amore e perdono.  Si, “accogliere” è un verbo che fa luce e dà colore. Soprattutto se arrivi a intendere in profondità questa parola di Gesù: “Chi accoglie colui che io manderò” a cui si aggancia tutto il resto.

“Chi è che Tu mandi, Signore?” Ovviamente quelli che mi comunicano la Tua Parola, amministrano i sacramenti, i sacerdoti, i profeti che anche oggi fanno luce su come vivere il Tuo Vangelo.

Ma credo proprio che Tu voglia aprirmi il cuore a più luminosi spazi dell’esistenza. Ogni uomo che io incontro nelle mie giornate è mandato da Te, Signore.  Perché è quel prossimo che Tu vuoi io m’impegni ad amare, è quella persona in cui la Fede mi fa ravvisare Te, Signore Gesù.

Che splendida verità mi comunichi con questo tema dell’accogliere! Accogliere è abbraccio che si approfondisce e si amplifica fin – Tu mi dici – ad accogliere non Te solo ma perfino il Padre, l’ONNIPOTENZA dell’Amore che non cessa mai di amare.  Proprio perché non cessa di accogliere il Figlio e noi tutti in Lui.

Grazie Gesù! So che diventando più capace di larga accoglienza, sarò più uomo, più cristiano, più felice di vivere.
La voce del patrono d’Italia

“Maestro, fa che io non cerchi tanto ad esser consolato, quanto a consolare; ad essere compreso, quanto a comprendere; ad essere amato, quanto ad amare. Poiché è dando, che si riceve; perdonando, che si è perdonati; morendo, che si risuscita a Vita Eterna”.


San Francesco d’Assisi

Commento di Sr Maria Pia Giudici, FMA





LETTURE DI GIOVEDÌ

Madonna_di_Capocolonna

30 aprile 2015

IV Settimana del Tempo di Pasqua

MADONNA DI CAPOCOLONNA

30 aprile – Le feste mariane in onore della Madonna di Capocolonna si celebrano nel mese di maggio ed ogni sette anni con particolare solennità. Questo quadro bizantino ha protetto più volte la città dai turchi, dai terremoti, dalle pestilenze e raffigura la Vergine Maria con in braccio il bambino Gesù. La storia della devozione e i festeggiamenti con il video.

Notre_Dame_d-'afrique 

NOSTRA SIGNORA D’AFRICA

ALGERI – 30 aprile – Una statua di bronzo della Vergine Maria, copia di un’opera originale creata da Bouchardon nel 1750, fu offerta nel maggio del 1840 a Dupuch, il primo vescovo di Algeri. Essa fu posta nel monastero trappista di Staouëli a Bouchaoui, un piccolo villaggio a una ventina di chilometri da Algeri e solo successivamente trasferita nella capitale. La storia, la devozione e la preghiera.

San Giuseppe Benedetto Cottolengo

 San Giuseppe Benedetto Cottolengo2

sacerdote fondatore (1786-1842) 30 aprile -Amato e invocato da chiunque si abbandoni alla provvidenza. Si definì povero tra i poveri vestiva e mangiava infatti come loro. Particolarmente devoto alla Madonna la scelse come patrona dei suoi istituti. La storia, due video e il film.
Quando avanzavi, o Dio, davanti al tuo popolo, e ad essi aprivi la via e abitavi con loro, la terra tremò e stillarono i cieli. Alleluia.

PREGHIERA DEL MATTINO

O Dio, che hai redento l’uomo e lo hai innalzato oltre l’antico splendore, guarda all’opera della Tua misericordia, e nei Tuoi figli, nati a vita nuova nel Battesimo, custodisci sempre i doni della Tua grazia. Amen

PRIMA LETTURA

At 13, 13-25Dagli Atti degli Apostoli
Salpàti da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge, in Panfìlia. Ma Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme. Essi invece, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati paolo predicazione 
nella sinagòga nel giorno di sabato, sedettero. Dopo la lettura della Legge e dei Profeti, i capi della sinagòga mandarono a dire loro: «Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate!». Si alzò Paolo e, fatto cenno con la mano, disse: «Uomini d’Israele e voi timorati di Dio, ascoltate. Il Dio di questo popolo d’Israele scelse i nostri padri e rialzò il popolo durante il suo esilio in terra d’Egitto, e con braccio potente li condusse via di là. Quindi sopportò la loro condotta per circa quarant’anni nel deserto, distrusse sette nazioni nella terra di Canaan e concesse loro in eredità quella terra per circa quattrocentocinquanta anni. Dopo questo diede loro dei giudici, fino al profeta Samuèle. Poi essi chiesero un re e Dio diede loro Sàul, figlio di Chis, della tribù di Beniamino, per quarant’anni.  E, dopo averlo rimosso, suscitò per loro Davide come re, al quale rese questa testimonianza: “Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri”. Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele. sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”».”Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”».
C: Parola di Dio.
A: Rendiamo grazie a Dio.

SALMO RESPONSORIALE

Sal.88
angelo che canta 
RIT: Canterò in eterno l’amore del Signore.
Canterò in eterno l’amore del Signore, di generazione in generazione farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà, perché ho detto: «È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà». RIT
«Ho trovato Davide, mio servo, con il mio santo olio l’ho consacrato; la mia mano è il suo sostegno, il mio braccio è la sua forza». RIT
«La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui e nel mio nome s’innalzerà la sua fronte. Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre,
mio Dio e roccia della mia salvezza”». RIT

CANTO AL VANGELO

Alleluia, Alleluia.
Gesù Cristo, testimone fedele, primogenito dei morti, tu ci hai amati e hai lavato i nostri peccati nel tuo sangue.
Alleluia.

VANGELO

Gv 13, 16-20 Dal Vangelo secondo Giovanni
gesubambina 
[Dopo che ebbe lavato i piedi ai discepoli, Gesù] disse loro: «In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica. Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto; ma deve compiersi la Scrittura: “Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno”. Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io sono. In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.


COMMENTO

Dalla stirpe di Davide Dio trasse Gesù, il Salvatore.
Gesù, che trascende la storia mentre vi s’inserisce, stabilisce anche la continuazione fra la sinagoga e la Chiesa, fra il mondo giudaico e i gentili. Gesù è colui che coordina, nel piano dell’amore, la storia giuda 
anche attuale, di tutti i popoli e di tutte le Chiese nell’unicità della sua Chiesa. È Gesù il traguardo degli interventi di Dio. Servire con Gesù è una beatitudine. Poi il tragico accenno al traditore, in conformità con le Scritture. E, infine, Tanto Gesù ama identificarsi con quelli che sono i suoi. Gesù lava i piedi ai discepoli: egli si presenta non come il Signore ma come il servo. Essi, i discepoli, saranno beati se con fede imiteranno il senso del suo gesto d’umiltà. In realtà non tutti lo comprenderanno. Deve venire il tradimento e la passione, e la morte atroce. Quello che invece importa è il Dio che così si è rivelato e ha parlato nel roveto ardente a Mosé. (Preparato dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire)

PREGHIERA DELLA SERA

O Signore, che conosci coloro che hai scelto per mandarli in missione, fà che accogliamo con umiltà e fiducia gli apostoli e i profeti di oggi che testimoniano con la loro vita la Tua presenza fra noi. Per Cristo nostro Signore. In cambio Ti affidiamo, le gioie e le fatiche, le rinunce e gli atti di carità che siamo riusciti a fare in questo giorno e Ti ringraziamo con tutto il cuore per tutto quello che fai per noi e ci dai ogni 
 
Da |  http://blog.studenti.it/biscobreak/2015/04/letture-di-giovedi-30-aprile-2015/

Date a Cesare quel che è di Cesare, ma a Dio quel che è di Dio




«Mandarono da Gesù alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”» (Mc 12,13-14).
Gli uomini di potere sanno che, da sempre, la politica è un terreno scivoloso. Scelgono questo tema per cercare di cogliere in fallo Gesù. Ed, ancora una volta, la situazione più difficile diventa per il Signore non una realtà da rifiutare e da fuggire, bensì un’occasione per amare e per testimoniare la verità del Padre e dell’uomo.
L’affermazione «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio» (Mc 12, 17) – una dichiarazione che cambierà il volto della storia tutta dell’umanità e che fonderà per sempre la laicità vera del potere - viene espressa in un momento di esplicita persecuzione nei confronti del Cristo, mentre cioè si sta tramando la sua morte. Anche qui nessun istante della vita del Signore va perduto. Egli è “la Parola”!
La domanda sembra senza possibilità di scampo: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Se Gesù rispondesse che è lecito, ecco che sarebbe facile accusarlo di essere un uomo compromesso con il potere romano, uno che non prende le distanze dal nemico che toglie la piena libertà al paese, uno che è connivente con una situazione di ingiustizia nella quale tanti sono costretti.
Ma se rispondesse che non è bene pagare le tasse, ecco che egli potrebbe essere facilmente fatto passare per uno dei tanti rivoluzionari ostili all’autorità dei quali pullulava allora la Giudea, uno di quelli dai quali è bene guardarsi perché non si sa dove possono condurre gli animi eccitati del popolo, uno di quelli che di fatto porteranno Gerusalemme alla rovina attraverso le due guerre giudaiche.
Solo uno sguardo superficiale potrebbe etichettare la risposta di Gesù come furba, come prudente, come un escamotage per sfuggire al dilemma. In realtà essa scava nel profondo, segnando il passo di ogni futura discussione su Dio e sull’uomo.
Gesù, domandando che gli sia mostrata la moneta del tributo, obbliga, innanzitutto, i suoi ascoltatori a manifestare che essi fanno uso del denaro e proprio di quelle monete con le quali vorrebbero incastrarlo.
È una straordinaria lezione di realismo. L’uomo, ovunque si trovi, intrattiene relazioni con altri uomini tramite costituzioni, leggi, pesi e misure, quantificazioni economiche, equilibri di potere: è un “animale sociale” ed ha bisogno della società per vivere.
A partire dall’insegnamento del Signore il cristianesimo ha imparato a rigettare l’anarchia e l’utopia di abolire le istituzioni, perché lo Stato è necessario nel tempo transitorio della storia.
L’uomo che è debole, a motivo del peccato e del peccato originale, non saprebbe governare se stesso senza una strutturazione istituzionale della società. Paolo trarrà le giuste conseguenze da questo rifiuto dell’anarchia dichiarando nella lettera ai Romani che l’autorità è da Dio, non nel senso che i governanti sono scelti di volta in volta dall’Onnipotente e nemmeno nel senso che le loro decisioni esprimono il volere divino, ma, molto più essenzialmente, nel senso che Dio vuole che esistano strutture politiche, in quanto necessarie all’ordinata convivenza degli uomini.
In questo modo Gesù annuncia che il regno di Dio non è realizzabile in pienezza in terra e che un tentativo di schierarsi dalla parte dell’utopia equivarrebbe alla più grande delle ingiustizie e delle prevaricazioni, come la storia dei totalitarismi di destra e di sinistra del secolo passato ha dimostrato. La politica è il luogo delle mediazioni possibili, ma necessarie. I farisei e gli erodiani interrogano Gesù sul tributo, ma non mettono minimamente in questione l’utilizzo di quelle monete che proprio l’imperatore ha coniato, con la propria iscrizione ed immagine, e senza le quali non sarebbe loro possibile alcuno scambio economico.
Ma è la finale della risposta a creare la sorpresa più significativa: «E rendetelo quello che è di Dio, a Dio» (Mc 12, 17). Ancora una volta Gesù senza il Padre sarebbe incomprensibile. Sempre a Lui egli riconduce i suoi ascoltatori. Essi, con grande disinvoltura – ed, in fondo, a ragione – fanno uso delle monete di Cesare, riconoscendo di fatto che senza qualcuno che governi non si può vivere.
E, di fatto, essi danno a Cesare ciò che è suo. Avviene lo stesso con Dio? Essi lo riconoscono come uno che deve essere preso in considerazione, come colui che è Signore delle cose sue?
I farisei e gli erodiani hanno dinanzi a sé non solo le monete con le immagini dell’imperatore, ma hanno davanti soprattutto il Figlio che porta l’immagine del Padre. Cosa faranno di lui? Cosa faranno di Colui che appartiene come cosa propria a Dio stesso?
Una esigenza diversa da quella politica si manifesta qui: quella di riconoscere Dio ed il suo inviato come tali. Dio è Signore ben più importante di Cesare, eppure di Cesare accettano la presenza, di Dio essi rifiutano il Figlio!
Non solo il Cristo stesso, ma anche l’uomo è segnato dall’immagine divina, come già Israele aveva da sempre saputo. Quell’immagine impressa che segna la differenza fra l’uomo e l’animale, quell’icona visibile dell’invisibile che esprime la possibilità che solo l’uomo ha di essere in relazione libera, e quindi amorevole, con i suoi simili e con Dio stesso: «A immagine di Dio lo creò» (Gen 1,27).
Ecco il limite della politica ed ecco anche il suo fine. Essa non fonda i diritti dell’uomo, ma deve ad essi inchinarsi e servirli. Il compito dell’agire politico è quello di riconoscere la dignità dell’uomo e servirla. Perché i diritti umani hanno origine dalla dignità dell’uomo stesso che gli deriva dalla sua origine divina.
È in vista di questo servizio che il potere ha la sua necessità ed il suo senso nella storia umana. Di quell’immagine non si può fare “negozio”, perché non può essere comprata o venduta, perché non appartiene al novero delle cose materiali ed economiche: essa è, invece, senza prezzo, è di un valore inestimabile, è cosa di Dio stesso. È la dignità inalienabile dell’uomo che Gesù fa apparire.
La politica è così accolta, ma insieme demitizzata. Il dialogo con i farisei e gli erodiani indica da quel momento e per sempre la laicità della politica, la sua bontà e necessità, ma anche fornisce gli strumenti per opporsi al potere politico ogni volta che questo chiederà l’obbedienza assoluta, mettendosi al posto di Dio e negando la dignità dell’uomo.


Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (26/4/2015)

 http://www.gliscritti.it/blog/entry/3126

Fede di popolo. Bergoglio: vi spiego la teologia del popolo



«Bergoglio si ispira alla teologia del popolo». Questo ritornello è stato ripetuto fin dal primo minuto dopo l’elezione di papa Francesco. Ma pochi hanno cognizione precisa dei contenuti della teologia del pueblo, una delle correnti della teologia della liberazione di matrice sudamericana. Ora per la prima volta arriva in Italia un’opera sistematica di Introduzione alla teologia del popolo (Editrice Missionaria Italiana, pp. 272, euro 20, in libreria da oggi; info: tel. 051/326027), testo del teologo argentino Ciro Enrique Bianchi, che ha studiato sotto la guida di Víctor Manuel Fernández, attuale rettore dell’Università Cattolica d’Argentina e da tempo stretto collaboratore di papa Francesco. Il testo di Bianchi si presenta (così recita il sottotitolo) come Profilo teologico e spirituale di Rafael Tello, pensatore argentino che è da considerarsi uno dei fondatori della teologia del popolo. E che Bergoglio stima moltissimo: infatti, oltre a scrivere la prefazione al testo di Enrique Bianchi, volle anche intervenire con un discorso alla prima presentazione ufficiale di tale volume nel 2012. Quel testo, inedito fino ad oggi, funge da prefazione all’edizione italiana di Introduzione alla teologia del popolo. Qui ne presentiamo ampi stralci.


Sotto il profilo storico, il nostro continente latinoamericano è marcato da due realtà: la povertà e il cristianesimo. Un continente con molti poveri e con molti cristiani. Ciò fa sì che nelle nostre terre la fede in Gesù Cristo assuma un colore speciale. Le processioni affollatissime, la fervida venerazione di immagini religiose, il profondo amore per la Vergine Maria e tante altre manifestazioni di pietà popolare sono una testimonianza eloquente. Puebla esprime questa stessa consapevolezza dicendo che l’incarnazione del Vangelo in America ha prodotto una «originalità storico-culturale» (cfr . DP 446). In cinque secoli di storia, nel nostro continente è andato sviluppandosi un nuovo modo culturale di vivere il cristianesimo, il cristianesimo ha trovato un nuovo volto. 

Quando ci avviciniamo al nostro popolo con lo sguardo del buon pastore, quando non veniamo a giudicare ma ad amare, troviamo che questo modo culturale di esprimere la fede cristiana resta tuttora vivo tra noi, specialmente nei nostri poveri. E questo, fuori da qualsiasi idealismo sui poveri, fuori da ogni pauperismo teologale. È un fatto. È una grande ricchezza che Dio ci ha dato.
Aparecida ha fatto un passo avanti nel riconoscerla. Se prima si parlava di
religiosità popolare (il termine resta in uso), Paolo VI fa un passo avanti e dice: sarebbe meglio chiamarla pietà popolare. Aparecida fa un altro passo avanti e la chiama spiritualità popolare. 

In una prospettiva storica, se guardiamo a questi cinque secoli di storia, vediamo che la spiritualità popolare è una strada originale sulla quale lo Spirito Santo ha condotto e continua a condurre milioni di nostri fratelli. Non si tratta soltanto di manifestazioni di religiosità popolare che dobbiamo tollerare, si tratta di una vera spiritualità popolare che deve essere rafforzata secondo le sue proprie vie. Dopo Aparecida non possiamo più trattare la pietà popolare come la Cenerentola di casa.
È singolare: nella redazione di Aparecida, quattro e tre giorni prima della votazione definitiva, il documento aveva ricevuto 2440 «modi», cioè emendamenti, che andavano risolti entro quei giorni. E tuttavia il capitolo sulla spiritualità popolare ricevette soltanto due o tre osservazioni, ma stilistiche, secondarie. Venne rispettato esattamente così com’era uscito dalla commissione in cui si era visto rispecchiato tutto l’episcopato che era là presente. Questo è un segno. 
Non è la Cenerentola della casa. Non sono quelli che non capiscono, quelli che non sanno. Mi dispiace quando qualcuno dice: «Quelli dobbiamo educarli». Ci perseguita sempre il fantasma dell’Illuminismo, quel riduzionismo ideologico-nominalista che ci porta a non rispettare la realtà concreta. E Dio ha voluto parlarci tramite realtà concrete. La prima eresia della Chiesa è la gnosi, che già l’apostolo Giovanni critica e condanna. Anche al giorno d’oggi possono darsi posizioni gnostiche davanti a questo fatto della spiritualità o pietà popolare. 
Sul tema pietà popolare negli ultimi tempi ci sono due pilastri insuperati, a cui bisogna ricorrere come fonti: la Evangelii nuntiandi (che come esortazione apostolica sull’evangelizzazione ancora non è stata superata nel suo insieme) e Aparecida. Occorre fare ricorso a quelle fonti. Aparecida riprende e attualizza per la realtà del nostro continente l’insegnamento di Paolo VI nella Evangelii
nuntiandi. 

Vi raccomando di leggere i punti in cui tratta il tema. Dal 258 al 265. Ciascuno di quei passi merita di essere meditato con attenzione. Dice, per esempio: «I nostri popoli si identificano particolarmente con il Cristo sofferente, lo guardano, lo baciano sui piedi feriti, come a dire: questi è colui “che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2,20). Molti di essi, colpiti, ignorati e depredati, non abbassano le braccia. Con la loro caratteristica religiosità si aggrappano all’immenso amore che Dio ha per loro e che li fa tornare consapevoli della propria dignità. Trovano anche la tenerezza e l’amore di Dio nel volto di Maria. In lei vedono riflesso il messaggio essenziale del Vangelo» (DA 265). 
Inoltre: «La pietà popolare è una modalità legittima di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa e una forma dell’essere missionari; in essa si sentono le vibrazioni più profonde della profonda America. Essa è parte dell’“originalità storico-culturale” dei poveri di questo continente, e frutto di “una sintesi tra le culture [dei popoli originari] e la fede cristiana”» (DA 264). 
Un’ultima citazione, molto importante: «Non possiamo svalutare la spiritualità popolare o considerarla una modalità secondaria di vita cristiana, perché sarebbe come dimenticare il primato dell’azione dello Spirito e l’iniziativa gratuita dell’amore di Dio» (DA 263). La pietà popolare è lo schiudersi della memoria di un popolo. È essenzialmente deuteronomica. Non possiamo comprenderla senza un inquadramento deuteronomico. E quella memoria si schiude in diverse maniere.
Monsignor Tavella, arcivescovo di Salta negli anni Quaranta, racconta un aneddoto. Entra nella sua cattedrale e vede un indio che prega con enorme concentrazione davanti al Signore dei Miracoli. Lui recita il suo ufficio e l’indio se ne resta là, tranquillo. Insomma, si incuriosì e aspettò per vedere che cosa sarebbe successo. Dovette aspettare un buon tratto di tempo, finché l’indio non terminò. Allora gli si avvicinò. «La benedizione, padrecito», gli disse subito l’indio. Cominciando a conversare gli domandò: «Lei che cosa stava pregando? ». «Il catechismo,
padrecito», rispose l’indio. Era il catechismo di san Toribio (secolo XVI)
. La memoria di un popolo

Un ricordo personale sulla pietà popolare. Per due anni sono stato confessore nella residenza di Córdoba. La residenza della Compagnia a Córdoba si trova in pieno centro, accanto all’università. Vi si confessano gli studenti universitari, i professori e persone dei quartieri popolari che quando vanno in centro ne approfittano per confessarsi perché il prete del quartiere non ha tempo per confessare alla domenica, visto che fa una messa dopo l’altra. E notavo che tra questi ultimi c’erano persone che si confessavano «bene». Non facevano perdere tempo. Dicevano quel che c’era da dire. Non dicevano mai qualcosa che non fosse peccato. Non si vantavano. Parlavano con molta umiltà. Un giorno chiesi a uno di questi di dove fosse. Ed era di Traslasierra. La memoria catechetica di don Brochero. Un popolo che si esprimeva così nel sacramento della riconciliazione (sono contento di ricordare quell’episodio proprio oggi, il giorno in cui a Roma è stato riconosciuto il miracolo del cura Brochero). La pietà popolare affluisce dalla memoria di un popolo e – ripeto – dobbiamo interpretarla in una cornice deuteronomica. La Chiesa ha fatto un’opzione preferenziale per i poveri e questo deve portarci a conoscere e ad apprezzare le loro maniere culturali di vivere il Vangelo. È bene – ed è necessario – che la teologia si occupi della pietà popolare, è il «prezioso tesoro della Chiesa cattolica in America Latina» , ci diceva Benedetto XVI inaugurando la Conferenza di Aparecida.
Padre Tello offre un pensiero teologico solido del quale possiamo valerci per apprezzare questa spiritualità nelle sue vere dimensioni. Il punto di partenza è pensare all’uomo come un essere sociale per natura. Nessuno può vivere assolutamente isolato, tutti gli atti delle persone si danno in un ambiente storico che li condiziona, l’operato concreto è contrassegnato dalla cultura in cui si svolge. Nella dinamica della storia l’uomo crea la cultura e la cultura influisce sull’uomo. Con parole di Giovanni Paolo II: «L’uomo è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso» (FR 71). In questo la fede non fa eccezione. La fede si esprime sempre culturalmente. Il bambino l’impara dai genitori, dai maestri, dai catechisti, dall’ambiente. La fede è soprattutto una grazia divina. È anche un atto umano, e pertanto un atto culturale. Perciò si può parlare di un modo culturale di apprendere ed esprimere la fede. Perciò si può dire, come dice Tello, che quanto i nostri poveri esprimono nella loro pietà popolare sgorga da una fede vera, e che da questa fede sgorga anche un atteggiamento cristiano davanti alla vita. 
Quando come Chiesa ci accostiamo ai poveri per accompagnarli, constatiamo – al di là delle enormi difficoltà quotidiane – che vivono con un senso trascendente della vita. In qualche modo il consumismo non li ha ancora ingabbiati. La vita mira a qualcosa che va oltre questa vita. La vita dipende da Qualcuno (con la maiuscola) e questa vita ha bisogno di essere salvata. Tutto questo si trova nel più profondo della nostra gente, anche se è incapace di formularlo in termini concettuali. Il senso trascendente della vita che si vede nel cristianesimo popolare è l’antitesi del secolarismo che si diffonde nelle società moderne. È un punto chiave. Se volessimo parlare in termini antagonistico-aggressivi, diremmo che la fede del nostro popolo è uno schiaffo agli atteggiamenti secolarizzanti.
Pertanto si può dire che la pietà popolare è una forza attivamente evangelizzatrice che possiede nel suo interno un efficace antidoto davanti all’avanzare del secolarismo. Aparecida si esprime con parole simili: «La pietà popolare, […] nell’ambiente secolarizzato in cui vivono i nostri popoli, continua a essere una grandiosa confessione del Dio vivente che agisce nella storia, e un canale di trasmissione della fede» (DA 264). 
La Chiesa è chiamata ad accompagnare e a fecondare incessantemente questo modo di vivere la fede dei suoi figli più umili. In questa spiritualità c’è un «ricco potenziale di santità e di giustizia sociale» (DA 262) di cui dobbiamo valerci per la Nuova Evangelizzazione. Come direbbe lo stesso Tello: il cristianesimo popolare dev’essere rafforzato con una pastorale popolare.

Riprendiamo da Avvenire del 26/4/2015 un testo di Jorge Mario Bergoglio. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

da |  http://www.gliscritti.it/blog/entry/3128

mercoledì 29 aprile 2015

LETTURE DI MERCOLEDÌ 29 APRILE 2015

Madonna_di_Re_1-1

29 aprile 2015

IV Settimana del Tempo di Pasqua

MADONNA DEL SANGUE DI RE

Valle Vigezzo – VB – (Italia) 29 aprile 1494 – La Madonna del Sangue di Re ci dimostra che ogni immagine sacra, anche la più semplice e dimenticata, deve essere tenuta in grande rispetto e considerazione. La storia del miracolo con un video del santuario.

4Santa_Caterina_1SANTA CATERINA DA SIENA

dottore della Chiesa, patrona d’Italia e d’Europa[1347-1380] 29 aprile – Si lasciava ispirare dallo Spirito Santo: “…più conosciamo e comprendiamo Dio, più vediamo come sia «pazzo d’amore per noi», e più desideriamo ricambiare il suo amore…”Rimproverò apertamente e aspramente la lussuria e la rilassatezza della Chiesa, e imitando il suo amato Gesù dette tutta se stessa per lei. La storia, la video-storia e il film. CHI ERA VERAMENTE SANTA CATERINA DA SIENA?  Un’interessante inserto per conoscere meglio questa grande santa, un’analisi interiore e i video sugli scritti relativi alla Divina Provvidenza.
“Questa è la vergine saggia, una delle vergini prudenti: è andata incontro a Cristo con la lampada accesa. Alleuia.”

PREGHIERA DEL MATTINO

O Dio, che in santa Caterine da Siena, ardente del Tuo spirito di amore, hai unito la contemplazione di Cristo crocifisso e il servizio della Chiesa, per Sua intercessione concedi a noi Tuoi fedeli, partecipi del mistero di Cristo, di esultare nella rivelazione della sua gloria. Per Cristo nostro Signore. Amen.

PRIMA LETTURA

1 Gv 1,5 – 2,2
Dalla prima lettera di San Giovanni apostolo.
parolaCarissimi, questo è il messaggio che abbiamo udito da Gesù Cristo e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi. Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
C: Parola di Dio.
A: Rendiamo grazie a Dio.

SALMO RESPONSORIALE

Sal 44
RIT: ‡ In te, Signore, ho posto la mia gioia.
gioiaAscolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; al re piacerà la tua bellezza. Egli è il tuo Signore: prostrati a lui. RIT
La figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d’oro è il suo vestito; è presentata al re in preziosi ricami. RIT
Con lei le vergini compagne a te sono condotte; guidate in gioia ed esultanza entrano insieme nel palazzo del re. RIT

CANTO AL VANGELO

Alleluia, Alleluia. Questa è la vergine saggia che il Signore ha trovato vigilante; all’arrivo dello Sposo è entrata con lui alle nozze.
Alleluia.

VANGELO

Mt 25, 1-13 Dal Vangelo secondo Matteo
vergini2‡ In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: “Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dàteci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compràtevene. Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, àprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

COMMENTO

La vergine saggia e sapiente.
vergini sagge e stolteNel vangelo che la liturgia ci presenta oggi possiamo intravvedere la grande santa senese come la vergine saggia e prudente, che, in attesa dell’incontro con lo Sposo divino, ha preso con se la lampada e si è munita di olio. In questa parabola evangelica possiamo scoprire tutte le preclari virtù che hanno adornata la patrona dell?Europa. Lei è la donna sapiente, che ha compreso appieno l’essenza della religiosità autentica: ha dedicato tutta la sua vita ad un incontro personale con Cristo, si è lasciata umilmente illuminare dalla luce radiosa dello Spirito Santo e ha trovato nell’amore al Signore larealizzazione piena della sua vita. Abbondando così di olio, ha tenuto costantemente accesa la sua lampada, anche nel cuore della notte, e ha saputo irradiare la sua luce a tutto il mondo ecclesiastico e civile del suo tempo. Aveva appreso la vera sapienza e la vera prudenza, non dai libri, ma dal cuore stesso del suo Sposo divino, dalla fonte stessa della verità e della vita. Si è trovata pronta all’incontro con lui e la lampada luminosissima della sua vita, ha riflesso luce ovunque e a tutti. Ha squarciato le tenebre della notte del suo tempo eancora ai nostri giorni, con i suoi scritti, con i suoi esempi con la sua intercessione irradia luce di sapienza, ci si mostra come modello sublime di vita e come celeste patrona. Lei ci ricorda che è da stolti restare senza olio, affondare nel buio e mancare all’appuntamento con il Signore. Ci indica ancora la fonte inesauribile della vera sapienza e soprattutto alle donne di ogni epoca, addita i motivi profondi per affermare e difendere la propria dignità. Indica a tutti di non cedere alla facile tentazione di confidare nelle proprie forze per non cadere nell’illusione di un superficiale perbenismo. Restare al buio e privi di olio, vedersi esclusi dal convito dello sposo per un colpevole ritardo è un grave peccato che guasta la vita di molti. Essere sempre pronti, con le lampade accese è la virtù del viandante sapiente e saggio, è la virtù del cristiano vero.
Fonte: (Preparato dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire)

PREGHIERA DELLA SERA

4santa Caterina da Siena8Ti rivolgiamo la nostra preghiera o Signore, Tu che perpetui la Tua presenza salvifica fra noi inviandoci uomini e donne piene di sapienza e di santità. Abbi sempre questa dolce pietà per   il Tuo popolo, o Signore. In cambio Ti affidiamo, le gioie e le fatiche, le rinunce e gli atti di carità che siamo riusciti a fare in questo giorno e Ti ringraziamo con tutto il cuore per tutto quello fai per noi e ci dai ogni giorno. O Dio, anche per mezzo dei Tuoi santi continuamente ci offri la Tua salvezza: fà che, imitando il loro esempio e ricorrendo alla loro intercessione, raggiungiamo la meta alla quale ci chiami, per Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

martedì 28 aprile 2015

Più grande è la carità


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dalla Diocesi di San Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto


Questo sussidio per il tempo di Pasqua, frutto della collaborazione dei vari movimenti e associazioni della nostra diocesi, è viva testimonianza di una collaborazione integrata a servizio della Chiesa diocesana e delle parrocchie in cui essa si articola. Lo raccomando sia per l’animazione della liturgia delle domeniche di Pasqua, sia per le catechesi parrocchiali o dei vari gruppi e movimenti. Ma può essere valido aiuto anche per la meditazione e la preghiera personale. Richiamando ogni domenica uno dei verbi che scandiscono la preparazione al Convegno Ecclesiale del prossimo novembre a Firenze – uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare –, ci mette in sintonia con il cammino della Chiesa italiana sottolineando, domenica dopo domenica, esperienze e attività presenti nella nostra chiesa diocesana, piccoli segni di un nuovo umanesimo carico di carità e di operosità cristiana.
Ringrazio di cuore coloro che l’hanno preparato, augurando che il suo utilizzo sia fruttuoso per tutti noi.

Il vescovo
+ Carlo Bresciani

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Ogni uomo ferito è anche più uomo


dalla Diocesi di Lucera-Troia

In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Un titolo lungamente discusso. Prima e innanzitutto nella Conferenza Episcopale Italiana e poi nel Comitato Preparatorio, che sta lavorando già da diverso tempo, in vista del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (che si terrà a Firenze dal 9 al 13 novembre 2015): sia nella produzione dell’Invito, sia nella stesura della Traccia che cercheremo di rileggere in queste pagine.
In Gesù Cristo ‘il’ nuovo umanesimo. E perché non ‘un’ nuovo umanesimo? Capiamo che non si tratta solo un problema estetico o retorico, ma di un’oscillazione: tra il determinativo e l’indeterminativo, tra l’accento messo sulla nostra specificità cristiana, e l’accento messo su una dimensione maggiormente universale e dialogica. Nel secondo caso si tratta di riconoscere che quella che il cristianesimo offre è ‘una’ prospettiva, in cammino con altre prospettive teoriche, culturali ed esperienziali dell’umano: ‘un’ umanesimo e non ‘lo’ umanesimo.
Nel titolo sembra prevalere, invece, il primo orientamento, la sfumatura determinativa. Da subito, però, l’Invito al Convegno ecclesiale e la Traccia preparatoria hanno sfumato il rischio impositivo che si poteva annidare nell’intitolazione determinativa, il rischio di presentare una chiusura della Chiesa in se stessa, quasi come se a Firenze, culla dell’umanesimo, la Chiesa italiana volesse dire al mondo qual è il (nuovo) vero umanesimo; quasi come se, oggi, che tanti falsi umanesimi fanno sentire la loro voce, la Chiesa italiana volesse dire la verità sull’umanesimo; dall’alto; in maniera dimostrativa.

Questo contributo nasce da una rielaborazione della relazione tenuta da Annalisa Caputo nella Diocesi di Lucera-Troia all’incontro di presentazione della Traccia, il 20 febbraio 2015. Annalisa Caputo è docente di Linguaggi della filosofia all’Università degli studi di Bari e di Antropologia filosofica alla Facoltà Teologica Pugliese).

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lunedì 27 aprile 2015

Umanizzare il giornalismo

di Giovanni Tridente

La professione giornalistica non può prescindere dal soggetto umano. Chi la realizza deve necessariamente essere una persona. Il destinatario dell’attività informativa è sempre un individuo inserito in un ambiente sociale, dove si verificano una serie di accadimenti che il giornalista enarra e sui quali costruisce delle argomentazioni. Il fine di questa professione ha un vincolo di utilità. Non si può concepire un’attività giornalistica che non apporti alla cittadinanza (lettori, telespettatori, radioascoltatori e naviganti della Rete) un incremento di dati e informazioni che tornano “utili” nel modo di concepire, vivere e organizzare la propria appartenenza alla comunità. In-formare ha dunque l’inevitabile scopo di arricchire, formandolo, il cosiddetto “ricevente”. Diversamente, i dati comunicati non generano effetto sulla persona, e quindi sul pensiero e sulla coscienza del destinatario.

Il Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze spinge ad interrogarsi su come ri-umanizzare la società odierna, ritornando alla fonte che è Gesù Cristo. Questo invito riguarda inevitabilmente anche il mondo della comunicazione e dell’informazione, e con esso l’utilizzo di tutti i mezzi e gli strumenti moderni. Fondare un “nuovo umanesimo” in ambito giornalistico significa tornare alle origini della professione: una notizia è tale soltanto quando è nuova e soltanto quando è vera. In quanto nuova mi arricchisce di dati e informazioni che prima non conoscevo. Giacché vera, dimostra la correttezza di chi la comunica, che non si prende gioco della mia sensibilità né mi inganna.

Nuovo e vero devono però integrarsi con l’utilità (pubblica), la correttezza, il rispetto (della dignità) e l’onestà intellettuale. Ciò riguarda anche l’utilizzo dei moderni strumenti. Le reti sociali, ad esempio, sono una grande invenzione e attraverso di esse è possibile offrire un importante contributo all’uomo. Lo puoi coinvolgere, formare, aggiornare ed emozionare. Ma dovrai sempre farlo con rispetto, riconoscendone la dignità, e preferibilmente con spirito di servizio, che è in definitiva la massima aspirazione della professione giornalistica.


Giovanni Tridente è docente di Etica dell’informazione alla Pontificia Università della Santa Croce.

@gnntridente




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Francesco, i social e una profezia di 10 anni fa

di Alessandro Gisotti
L’omelia “social” di Santa Marta

È possibile incontrare Gesù su Facebook? Sicuramente è possibile incontrare la sua Parola. E Papa Francesco offre un contributo fondamentale a questo scopo. A convincermi di questa nuova possibilità di colloquio con il Risorto – per riprendere Paolo VI nell’Ecclesiam Suam – non è stato tanto uno studio “a freddo” dei social network, quanto un’esperienza “a caldo” di questa nuova dimensione del vivere quotidiano di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Al riguardo, sembra particolarmente significativo quanto succede giornalmente con le omelie pronunciate dal Papa nella Messa mattutina a Casa Santa Marta.

Come è noto, a queste celebrazioni partecipano di volta in volta poche decine di persone. L’omelia, per volontà del Pontefice, non è pubblicata integralmente. Tuttavia – grazie ai servizi di sintesi della Radio Vaticana prima e agli articoli dell’Osservatore Romano poi – le parole pronunciate da Francesco travalicano le mura della piccola cappella della Domus Sanctae Marthae per raggiungere velocemente un grandissimo numero di persone e comunità. E questo grazie soprattutto a Internet, in particolare alle reti sociali. Un processo di cui sono osservatore privilegiato, essendo uno dei tre redattori della Radio Vaticana che ha il compito di curare i servizi sulle “omelie di Santa Marta”.

Una semplice analisi cronologica di una “giornata tipo” mostra quanto la Rete sia uno straordinario e spontaneo amplificatore del microfono posto davanti alla bocca del Pontefice, alle 7 del mattino, per la Messa. La prima edizione dell’emittente vaticana che dà conto con un breve servizio (circa un minuto e mezzo) dell’omelia è alle ore 12, mentre una sintesi più ampia (intorno ai 3 minuti) viene trasmessa alle ore 14. La pubblicazione del servizio sul sito Internet della Radio (testo e audio) avviene invece, mediamente, tra le 10.30 e le 11. Quindi, almeno un’ora prima della messa in onda.

Si tratta di un tempo straordinariamente lungo per la comunicazione istantanea e “virale” che contraddistingue il Web. Uno spazio temporale in cui, quotidianamente, si ripete il “miracolo” di una rilettura globale del Vangelo del giorno da parte del Popolo di Dio, innescata dalla riflessione del Successore di Pietro. Qualcosa di assolutamente inedito che, da una parte, incarna perfettamente il binomio vescovo-popolo che sta al centro della visione di Chiesa di Jorge Mario Bergoglio; dall’altra, dimostra in modo eclatante come anche l’ambiente digitale possa essere terreno fecondo per la fioritura di un “nuovo umanesimo” fondato sul messaggio sempre vivo di Gesù Cristo.

Si resta sempre colpiti nel riscontrare come, pochi minuti dopo la pubblicazione della sintesi dell’omelia sul sito della Radio Vaticana, si metta in moto sui social network una conversazione globale sulle parole del Papa e dunque, in definitiva, sulla Parola di Dio. È come se Facebook, Twitter diventassero idealmente il piazzale antistante Casa Santa Marta, dove i partecipanti alla Messa di Francesco si riuniscono, dopo la celebrazione, per commentare quanto ascoltato. C’è chi, condividendo il link al servizio, mette l’accento su un passaggio, chi su un altro. Chi si rallegra per una formula particolarmente efficace, chi invece (non tanti, ma ci sono) trova inadeguato il linguaggio utilizzato dal Vescovo di Roma, a cui si chiede “maggiore autorevolezza”. C’è anche chi sovrappone una “frase forte” dell’omelia ad un’immagine che richiama l’attualità, dalla condizione dei cristiani perseguitati all’impegno per ridare dignità ai poveri.

Di certo, pochi tra gli abitatori del Continente digitale – e questo vale anche per i “lontani” dalla Chiesa – possono dire di rimanere del tutto indifferenti al messaggio che è stato “spedito” la mattina da Santa Marta, perché quel messaggio è stato fatto proprio, elaborato e “rispedito” da tantissime persone in una sorta di tam tam digitale. Insomma, come ha osservato il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, Papa Francesco più che comunicare “crea eventi comunicativi”. Non è il protagonista solitario di una storia, siamo tutti coprotagonisti. Vescovo e popolo, appunto.

Ma come è possibile, tuttavia, che le omelie di un Pontefice, che quando era arcivescovo di Buenos Aires neppure utilizzava Internet, abbiano un così grande successo nell’agorà digitale? Una prima possibile risposta la dà Francesco stesso quando nell’Evangelii Gaudium sottolinea che un’omelia dovrebbe sempre contenere “un’immagine, un’idea, un sentimento”. Effettivamente, il linguaggio fluido, espressivo, per certi versi immaginifico di Bergoglio sembra proprio essere adatto ad una comunicazione semplice e immediata (e per immagini) come quella della Rete.

D’altro canto, già Benedetto XVI – il Papa che ha avuto il merito e la lungimiranza di portare la Santa Sede sui social network – rilevava, nel 2011, che la Chiesa è chiamata “a scoprire, anche nella cultura digitale, simboli e metafore significative per le persone, che possono essere di aiuto nel parlare del Regno di Dio all’uomo contemporaneo”. Quando Papa Francesco parla dei “cristiani da salotto” o della Chiesa “madre e non baby-sitter”, tutti capiamo cosa sta dicendo perché ritroviamo tali esempi nel nostro vissuto quotidiano. E in questo si coglie anche quell’empatia che il Papa ha indicato ai vescovi dell’Asia, incontrati in Corea, come via privilegiata di annuncio del Vangelo. C’è poi un altro elemento “strutturale” che rende il linguaggio di Francesco web-friendly. Quando parla a braccio – come nelle omelie a Santa Marta – le sue frasi sono brevi, con poche subordinate e di facile memorizzazione. E’ come se fossero pronte per un tweet o per un post su Facebook.

Il linguaggio gioca quindi un ruolo importante, ma non sarebbe sufficiente a decretarne il “successo” se più in profondità non si riconoscesse al pastore Bergoglio la volontà di incontrare l’altro chiunque esso sia. Di più: a farsi prossimo a tutti e ad ognuno senza timori. Per Papa Francesco, come ha sottolineato parlando ai vescovi brasiliani in occasione della Gmg di Rio de Janeiro, “serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente”. E’ questo il progetto che Francesco chiama a costruire tutti assieme e i nuovi areopaghi digitali possono essere uno spazio importante di realizzazione, soprattutto per le nuove generazioni. Come ha scritto nel suo primo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali, i social network “sono oggi uno dei luoghi in cui vivere questa vocazione e riscoprire la bellezza della fede, la bellezza dell’incontro con Cristo”. Ed ha invocato “energie fresche e un’immaginazione nuova” per affrontare “la rivoluzione dei mezzi di comunicazione”.

Sono, queste affermazioni, profondamente in consonanza con quelle contenute in un documento di dieci anni fa, che a rileggerlo oggi assume il carattere della profezia. Il riferimento è alla Lettera apostolica di San Giovanni Paolo II, Il Rapido Sviluppo, indirizzato agli operatori delle comunicazioni sociali, e pubblicato nel gennaio 2005. In questo che è l’ultimo grande documento magisteriale prima della morte, Karol Wojtyla scrive che il fenomeno delle comunicazioni sociali “spinge la Chiesa ad una sorta di revisione pastorale e culturale”. E annota, con toni simili al suo successore gesuita, che “i media si rivelano una provvidenziale opportunità per raggiungere gli uomini in ogni latitudine, superando barriere di tempo, di spazio e di lingua, formulando nelle modalità più diverse i contenuti della fede”. In un tempo nel quale Facebook era nato da pochi mesi e Twitter era ancora lontano dal nascere, Giovanni Paolo II prevede che Internet non solo fornirà “risorse per una maggiore informazione”, ma abituerà le persone “ad una comunicazione interattiva”.

“Non abbiate paura delle nuove tecnologie! Esse – assicura Papa Wojtyla – sono tra le cose meravigliose – che Dio ci ha messo a disposizione”. Internet è “un dono di Dio”, gli farà eco 9 anni dopo Papa Francesco. Un dono che i comunicatori sono chiamati a custodire e valorizzare per il bene dell’uomo.

Alessandro Gisotti
Vice-caporedattore alla Radio Vaticana

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domenica 26 aprile 2015

Comunicare ed educare: la “generazione digitale”


smartphone


di Andrea Tomasi
L’ambiente dei social network sta diventando un modo di pensare e di vivere. La cultura digitale rischia però di produrre una sorta di “mutazione” antropologica, un cambiamento del concetto di persona umana. L’umanesimo deve pertanto assumere la sfida delle tecnologie, che è in primo luogo una sfida culturale ed etica da affrontare sul piano educativo. Educare “nella”, “alla”, “con la” tecnologia digitale richiede la mediazione con i nuovi modelli di comunicazione e di relazione imposti dalla rete. Occorre trovare nuovi linguaggi, nuove modalità espressive, con la costante attenzione a non tradire il contenuto di fedeltà all’uomo, la sua centralità rispetto ad ogni altro valore.
La famiglia, la comunità, un ideale di pienezza di vita, fino ai concetti stessi di conoscenza, di verità, di giustizia, di libertà, di amore sono sottoposti al vaglio della mentalità “della rete” e alle possibilità di essere snaturati dalla cultura corrente. In questo passaggio, che possiamo dire epocale per la velocità e la pervasività con cui si è prodotto, si rinnova la sfida di “inculturare” la fede, di “rendere ragione della speranza”, di indicare una prospettiva di significato all’uomo d’oggi.


Andrea Tomasi è docente di Sistemi Informativi all’ Università degli Studi di Pisa. Sposato, padre di tre figli, collabora con il Servizio Informatico della CEI fin dalla sua costituzione. Ha diretto il progetto “Parnaso, strumenti informatici e telematici per la fruizione dei beni culturali ecclesiastici”. È membro del Consiglio Direttivo di WECA – Associazione Web Cattolici. Ha partecipato alla ricerca “Churchbook: tra social network e pastorale. È autore, con Dario Caturegli, del testo Tutti in rete. Internet e computer nella pastorale giovanile e nella catechesi parrocchiale (Paoline 2002).

da | firenze2015

Umanesimo digitale


 

Come ha scritto Papa Francesco nel Messaggio per la 48a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, «i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa. […] Esistono però aspetti problematici: la velocità dell’informazione supera la nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé misurata e corretta. […] Questi limiti sono reali, tuttavia non giustificano un rifiuto dei media sociali; piuttosto ci ricordano che la comunicazione è, in definitiva, una conquista più umana che tecnologica […] » (Francesco, Comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro).
La rubrica Umanesimo digitale ospita contributi sul rapporto tra la fede, l’umanesimo e il web. L’obiettivo è duplice: da un lato affrontare gli aspetti problematici che riguardano Internet e il mondo digitale inteso come “periferia esistenziale”: un mondo che certamente facilita l’inclusione, ma che paradossalmente aumenta anche il rischio dell’esclusione. Dall’altro sottolineare invece gli aspetti virtuosi della Rete per diffondere la gioia del Vangelo: uno strumento che estende le possibilità dell’educazione, della formazione e dell’esperienza cristiana.
Le parole di Papa Francesco, risuonano in tutti gli angoli del web: «Comunicare significa quindi prendere consapevolezza di essere umani, figli di Dio. […] Non basta passare lungo le “strade” digitali, cioè semplicemente essere connessi: occorre che la connessione sia accompagnata dall’incontro vero. […] La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, non una rete di fili ma di persone umane».

da | firenze2015

sabato 25 aprile 2015

Beati i misericordiosi


di Simone Morandini

Dio perdona, soccorre, ama senza limiti. Chi prova misericordia si è fatto plasmare da quell’amore infinito e ora partecipa alla cura di Dio per le sue creature.
Chi legge quello splendido testo che è l’Evangelii Gaudium resta stupito dalla varietà di citazioni che papa Francesco riserva al termine «misericordia», co- sì come dalla loro concentrazione su due soggetti, a prima vista distanti. Da un lato, infatti, esse si riferiscono al Dio compassionevole, dall’altro a colui che esprime la solidarietà al povero, specie tramite la concretezza dell’elemosina.
In realtà tale coppia disegna un arco davvero centrale per le Scritture, che rivelano un volto divino eminentemente caratterizzato dalla misericordia, ricco di tenerezza: un Signore che ascolta il grido delle sue creature sofferenti e se ne lascia commuovere, stendendo il suo braccio per liberarle dall’afflizione (Es 3,7-8); che opera segretamente nel tessuto stesso del reale, come presenza misericordiosa e benedicente. Il tempo pasquale ci ha invitato a rinnovare la memoria del Dio che perdona e soccorre fino a mandare il Figlio a salvare ciò che era perduto; del Dio che per amore assume la condizione uma- na, obbediente fino alla morte di Croce; del Dio che vive come presenza amante nel cuore dei credenti. Questi è Colui che viene sperimentato dalla comunità credente: una realtà di misericordia che costituisce il cuore stesso del suo mistero santo; è il Dio Trinità, relazione vitale che si riverbera in un amore attivo, che crea, salva e crea comunione. Questo lo spazio accogliente in cui si trova ad abitare il credente, che si sa accolto e benedetto, anche quando la sua vita appare segnata dalla contraddizione.
Lo stesso dono ricevuto orienta, d’altra parte, a corrispondere a sua volta a tale realtà con un’esistenza parimenti ricca di amore – quella che il Nuovo Testamento richiama con il duplice comandamento (Mt 2,34-40; Mc 12,8-34; Lc 10,25-28) –. Il Vangelo di Luca ne illustra il significato con la parabola del buon samaritano (Lc 10,30-37), colui che sa ascoltare il gemito muto di uno sconosciuto e prendersene cura, interrompendo il proprio viaggio. Una storia che ha ispirato tanti, che hanno testimoniato della profondità di un tale amore misericordioso fino a lasciar trasformare la loro esistenza, i loro stili di vita e il loro cuore stes- so dalla compassione. La tradizione cristiana d’Oriente cita volentieri Isacco di Ninive, a ricordare che un cuore davvero misericordioso si commuove fino alle lacrime per ogni creatura, «per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste…», tanto che per la compassione «si scioglie e non può sopportare di udire o vedere un danno o la più piccola sofferenza della creazione» (Isacco di Ninive, Omelia I, 74, Un’umile speranza, a cura di S. Chialà, Qiqajon 1999).
La concreta pratica dell’elemosina, che porta a condividere i propri beni con chi ha meno, diviene allora un segno espressivo di tale sintonia compassionevole con l’agire divino; diviene un modo di partecipare alla cura di Dio per il povero. Ogni tem- po e ogni modo di vivere la fede hanno espresso tale istanza in forme diverse, talvolta concrete e immediate, talvolta mediate da sistemi più o meno complessi; nessuna di esse, però, sostituisce la concretezza del gesto direttamente indirizzato al povero, colui nel quale si cela il volto stesso del Signore (Mt 25,31-46). L’annuncio che sta al cuore della parola che stiamo commentando dichiara beati coloro che vivono tale condizione: beati, perché la misericordia da loro praticata riempirà la loro stessa esistenza; beati, perché la carità è ciò che resta quando persino sapienza, profezia e conoscenza svaniscono (1Cor 13,8).
Tale concreta attenzione per l’altro, quale espressione della sintonia con un Dio che è lui stesso misericordia, costituisce certo uno dei doni più significativi portati dalla tradizione cristiana alla storia dell’umanità. Lo testimoniano, ad esempio, le «Misericordie», confraternite che ancora oggi praticano un volontariato di grande efficacia e concretezza nel segno della cura. Ritrovare il senso e la profondità di tali pratiche costituisce una sfida grande per la Chiesa in Italia: il cammino verso il Convegno ecclesiale di Firenze 2015 è anche l’occasione per tornare a narrare di un umanesimo della misericordia, radicato nell’umanità di Gesù. Essa rinnova e sostiene pratiche di carità al cuore dell’umanità, collocandole nel solido spazio della beatitudine.
da Messaggero di Sant’Antonio, giugno 2014

Fonte: firenze2015

Beati i puri di cuore


di Adriano Fabris

Chi agisce rettamente e senza ambiguità non solo è «puro di cuore», ma è anche una persona degna di fiducia. E capace di salvaguardare la propria innocenza, in ogni situazione della vita.
La sesta beatitudine, quella che parla dei «puri di cuore», è tra tutte la più difficile da realizzare. Ma è anche quella che descrive una condizione che, per la sua messa in opera, dipende in buona parte da noi. C’impegna ad agire in prima persona, non solo a reagire rettamente a quanto può capitarci: come nei casi, menzionati in altre beatitudini, della sofferenza, dell’ingiustizia, del conflitto. Ma è proprio questo agire a essere difficile. Vediamo perché.
Chi sono anzitutto i «puri di cuore»? Anche qui l’espressione è biblica. Il riferimento è ai Salmi: ad esempio al Salmo 23 [24]. Le persone con un «cuore puro» non sono doppie, non sono ipocrite. Ciò che dicono corrisponde a quello che pensano. Il loro agire è animato da una retta intenzione: senza secondi fini, senza pensieri nascosti. Gesù è certamente il modello. Il suo essere si esprime e si rispecchia nelle cose che fa. Per questo esse lasciano il segno.
Chi è puro di cuore, poi, vale a dire chi agisce rettamente senza ambiguità, è certamente una persona degna di fiducia. Nei rapporti interumani, infatti, la fiducia si basa sulla trasparenza nei pensieri e nelle azioni. Di più. È una persona capace di salvaguardare la propria innocenza.
Si badi bene: l’innocente non è un ingenuo. Ingenuo è chi non sa come va il mondo, non ne conosce i meccanismi o non è in grado d’impararli. Diverso è il caso dell’innocente. Che sa bene, per lo più, come stanno le cose. Ma non si adatta a esse quando non vanno come dovrebbero. Non svende i suoi principi perché tutti si comportano altrimenti. Anzi: la fiducia che gli altri possono avere in lui si basa proprio sulla sua fedeltà a se stesso, sul suo mostrarsi per quello che è.
Innocenti sono i bambini. Spesso, certo, sono anche ingenui: almeno fino a quando non imparano a comportarsi. Ma, se sono spontanei, incapaci di mentire, restano innocenti. Come Adamo nel paradiso terrestre.
Gesù dice che dobbiamo essere come bambini. Intende che dobbiamo mantenere questa purezza di cuore. Cosa difficile, come dicevo. Non solo perché, in quanto adulti, sappiamo come va il mondo. Ma perché la tentazione ricorrente a cui siamo sottoposti è quella della dissimulazione. Magari per quieto vivere; magari per amor di pace. Sempre, però, a causa dell’esperienza che abbiamo acquisito e che c’induce a non mostrarci per quello che siamo. Ma così perdiamo la parte migliore di noi stessi. Rischiamo addirittura di dimenticarla. E la facciamo dimenticare agli altri. Ci perdiamo nelle convenzioni, nelle esteriorità, in ciò che vogliamo gli altri pensino di noi.
Ma così non siamo autenticamente noi stessi. Non siamo come Dio ci ha creato. Nella purezza di cuore, infatti, noi siamo non già come ci vedono gli altri, bensì come ci vede Dio. Magari anche diversi da come ci vediamo da noi stessi. Ma farci vedere da Dio così come siamo veramente è il modo migliore per entrare in rapporto con lui: senza sotterfugi; senza barare. Tanto Dio sa chi siamo. E ama chi si sforza di restare innocente. Perciò questi potrà vedere Dio.
da Il Messaggero di Sant’Antonio, settembre 2014

Fonte: firenze2015.it

Beati gli operatori di pace

di Simone Morandini

Come scrivere di pace in questo tempo così pieno di violenza? Come continuare a credere che «giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11b)? Come pregare ancora, tenacemente, per la pace quando sembra che la storia non faccia altro che smentire l’invocazione, lasciando spazio solo per il gemito delle vittime?
La settima beatitudine non è invito a un facile ottimismo, a una speranza a basso costo. È invece una promessa esigente, rivolta a coloro che operano coraggiosamente per la pace, affinché con tenacia perseverino in un agire che corrisponde a quello dello stesso Dio di cui essi saranno chiamati figli. Lui, infatti, è il primo operatore di pace, colui che fa crescere un tessuto condiviso di relazioni positive, radicate nell’alleanza, una condizione di integrità e di benessere per le persone, per le relazioni che esse intrattengono, per le rispettive comunità. Per questo l’annuncio di shalom è così centrale nelle Scritture ebraico-cristiane, che lo collegano strettamente all’azione di Colui che non cessa di indicare cammini di riconciliazione, anche di fronte alla violenza scatenata. Davvero, essa indica il dispiegarsi storico della salvezza da parte del Dio che viene: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”» (Is 52,7). Per il Nuovo Testamento, poi, la pace è uno dei grandi doni messianici del Salvatore: «Pace a voi» dirà il risorto ai discepoli (Lc 24,36; Gv 20,19.26) e la Lettera agli efesini chiamerà lui stesso «la nostra pace» (Ef 2,14). La croce – figura di una violenza che giunge a colpire il Signore stesso – è anche l’albero di vita, da cui promana una potenza di rinnovamento e riconciliazione che investe la storia e la creazione tutta.
Shalom dice dunque di un dono che viene dal Signore, ma anche di una realtà strettamente collegata a una pratica concretissima di giustizia: l’attenzione al povero e un vissuto che rifiuta l’iniquità e la violenza costituiscono il terreno fecondo in cui la pace può sbocciare (Sal 72,1-7). È come un frutto, che sboccia da una terra vivificata dalla rettitudine: «Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre» (Is 32,16-17); shalom è anche pace con la terra, capacità di vivere in armonia con essa, godendone i frutti e ringraziando per essi.
Non è casuale, allora, l’ampiezza dei riferimenti al tema della pace nella dottrina sociale della Chiesa: si pensi in particolare alla Pacem in Terris, nella quale poco più di mezzo secolo fa Giovanni XXIII chiamava la famiglia umana a vivere un tempo di cambiamento nel segno di un intreccio di diritti e doveri, superando la tentazione della violenza. Al n. 67 l’enciclica ricordava che, in un tempo che si gloria della forza atomica, è completamente irrazionale (alienum est a ratione) ritenere la guerra uno strumento di giustizia. Si pensi, ancora, al «Mai più la guerra », rilanciato anche un anno fa da papa Francesco di fronte alla minaccia di un conflitto su vasta scala. Del resto, in un mondo globalizzato la pace appare come una sfida centrale per le stesse religioni, tutte chiamate a disinnescare quei germi di violenza che talvolta le contaminano, per farsi invece attive promotrici di dialogo, di fraternità/ sororità, di giustizia.
E la pace è pure interpellazione forte per la Chiesa italiana, che nel suo cammino verso Firenze 2015 si interroga su come seguire oggi il Signore Gesù, su quale sia la figura di umanità che meglio corrisponde alla sua parola. Che significa oggi essere discepoli del «Principe della pace» (Is 9,5), di colui che si presenta a noi come bambino, in una fragilità indifesa, ma al cui venire «ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco» (Is 9,4)? Come testimoniare storicamente della qualità di questa pace?
Come operare concretamente per il contenimento e la riduzione della violenza? Don Tonino Bello invitava a «non scommettere su una pace che non venga dall’alto: è inquinata », ma anche a diffidare di una «pace che non si traduca in scelte storiche: è un bluff» (Sui sentieri di Isaia, La Meridiana 1989). La beatitudine e la speranza sono per chi sa che la pace è a caro prezzo, per chi non cede all’ideologia della violenza, per chi sa promuovere concreti spazi di convivenza, nella giustizia e nella verità, per la famiglia umana. Sono per chi ha il coraggio di accompagnare tale pratica con l’invocazione, tenacemente rivolta a Colui che solo può riempire la creazione e la storia di pace e sostenere chi la ricerca.
da Il Messaggero di Sant’Antonio, ottobre 2014

Fonte: firenze2015.it