lunedì 3 marzo 2014

Due premier e due Papi. Due diversi abbracci.

Scritto da don Marco Pozza



Come scrutare una storia anticipata in un abbraccio. Nel giro di una manciata d'ore, due abbracci sono saliti alla ribalta della cronaca in quest'ultima settimana: quello nato spontaneo tra Francesco e Benedetto XVI e quello formalmente dovuto tra Matteo Renzi ed Enrico Letta. Ad accomunarli più di qualche somiglianza: il presente – della Chiesa e dell'Italia – accanto al passato, la memoria di ciò ch'è accaduto e il futuro di ciò che potrà accadere, l'incontro tra due uomini di potere e di rappresentanza. Non da ultimo quel pugno di secondi ch'è durato quell'abbraccio: poco più di nulla, per dire con la plasticità di un gesto ciò che sarebbe stato ardito per qualsiasi pittore o artista.
Due Papi che s'incrociano: la memoria di ciò ch'è stato e il presente di ciò che è, con addosso quella divina occupazione e preoccupazione d'intravedere ciò che sarà. In quell'avvicinarsi di Francesco (ancora una volta in barba ai rigidi protocolli) e in quel nobile togliersi lo zucchetto bianco di Benedetto è racchiusa la storia da tanti definita la più ambiziosa e paradossale: quella cristiana, per l'appunto. Dove a contare non è solo dove l'uomo potrà un giorno giungere, ma prima ancora fare memoria del dove l'uomo è partito: delle sue origini, del suo albero genealogico, della sua stirpe. Francesco è il presente, Benedetto è il passato, d'Iddio sarà il futuro: forse per questo sotto il Cielo il domani si costruisce nel presente tenendo accesa la memoria del passato, delle origini. Due anziani condottieri: uno sul monte a pregare, l'altro nella vallata a combattere. Insieme, senz'acrimonia o disprezzo: forti del passato e capaci di futuro. Di visioni, di sogni, di rischi azzardati per narrare la fedeltà ai Vangeli. Il tutto nella brevità di un abbraccio: semplice, scarno, tipico di chi non s'accontenta del banale ma s'ostina a dare la caccia all'essenziale. Ai gesti che anticipano e oltrepassano le parole: “L'amore e l'arte non abbracciano ciò che è bello, ma ciò che grazie al loro abbraccio diventa bello” (K. Kraus).
Due premier che s'incontrano ma non s'abbracciano: certe offese non feriscono e certi sorrisi non rallegrano. Una mano sull'altra non dice nulla. Eppur lì, in quell'abbraccio mancato, scorre il destino ardito di un'intera nazione: delicato, impercettibile, finissimo. Indecifrabile: forse per questo il presente avrebbe bisogno del passato per tentare di organizzare il futuro. E il passato avrebbe bisogno del presente per essere memoria di una storia condivisa, democratica, esemplare. “Forse è stato meglio così” - dirà qualcuno: senza ipocrisia, al netto della sincerità, scevri di simpatia reciproca. O forse no, perché istituzionalmente quell'abbraccio serviva: alla trepidazione del popolo, all'angoscia del presente, alla tensione che comprime i giorni. La verità – forse anche quella politica – ama i tempi lunghi: dell'attesa, del dibattito, della contrapposizione. Senza un anticipo di simpatia, però, risulta ostica qualsiasi forma di comprensione della storia e di trasformazione del presente. Fallito l'abbraccio, è rimasta la campanella: quella che dà inizio alle lezioni. Ma anche quella che decreta che il tempo a disposizione è finito: questione di prospettive.
Due anziani s'abbracciano. Seppur diversi si vanno cercando, sostenendo, incoraggiando: la storia della salvezza è sempre sinfonia e mai un assolo, l'Eterno salva sempre un popolo e mai un singolo. Nel contempo due giovani s'ignorano: anche la storia di un paese è storia d'alleanza e di collaborazione, di sinergia e di vedute d'insieme. D'immagini che rendono molto più di mille parole. La storia di quaggiù la scrivono i vincitori: quella cristiana rimane l'unica storia scritta da dei perdenti capitanati da un Perdente Crocifisso. Una storia scritta con gli abbracci più che con il brusio delle parole: heri, hodie et semper.

(da Il Mattino di Padova, 2 marzo 2014)

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