mercoledì 12 marzo 2014

Consumare e generare. «Generativi di tutto il mondo unitevi!»


Consumare e generare
di Mauro Magatti e Chiara Giaccardi | 12 marzo 2014
«Generativi di tutto il mondo unitevi!» è l'appello al cambiamento di un nuovo libro interessante sul tema della crisi e le risposte possibili

Arriva oggi in libreria per Feltrinelli un libro molto interessante di Mauro Magatti e Chiara Giaccardi. Si intitola «Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi» e vuole essere una riflessione sulla crisi e le risposte possibili a partire dalla riscoperta della dimensione della generatività. Gli autori - sociologi dell'Università Cattolica e coppia anche nella vita - parlano del bisogno per la nostra società di ritrovare l'orizzonte del generare, dal punto di vista biologico dell'apertura alla vita ma non solo. Generare è infatti in un senso molto più ampio prendersi carico dell'altro, assumersene la responsabilità e rendersi conto che qualcuno vive affianco a noi e anche grazie a noi. Proprio per questo il titolo del libro fa il verso al celebre motto del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx «Lavoratori di tutto il mondo unitevi». Perché l'invito a porsi con uno sguardo generativo nei confronti del mondo è una scelta di cambiamento forte nella società di oggi. Dal libro anticipiamo qui sotto un brano che mette in luce in maniera molto forte l'opposizione radicale tra consumismo e generatività.

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Negli ultimi decenni, l’immaginario della libertà si è appiattito sull’idea di consumo: all’interno del circuito “potenza-volontà di potenza”, essere liberi fondamentalmente vuol dire avere un numero crescente di opportunità a disposizione. E disporsi in maniera aperta per poterle cogliere. Ma superare l’equazione libertà = consumo significa rifiutare il consumo?

Contrariamente a quanto sostenuto da molti critici, consumare non è un’azione superficiale e superflua, ma un atto antropologico originario, che costituisce una via privilegiata attraverso cui l’essere umano entra in contatto con la realtà. Un aspetto che si coglie chiaramente considerando la radice etimologica del termine, che può rinviare a due significati: il primo è cum summa, raggiungere insieme la vetta, con un chiaro riferimento sessuale. Il secondo è cum sum, essere con: il consumo è anche un modo di entrare in comunicazione, di essere “uniti a”. In entrambi i casi è evidente che mediante l’atto del consumo noi tocchiamo la realtà, la conosciamo e ci sentiamo parte di essa.

Il consumo è dunque fondamentalmente un atto di incorporazione che avviene attraverso i sensi: acquistando un oggetto, ascoltando un brano musicale, guardando una partita di calcio, facendo l’amore con il proprio partner, gustando un gelato, noi incorporiamo la realtà, ne sentiamo il sapore. “Sapore” e “sapere”, lo scriveva già Niccolò Tommaseo, e più tardi Roland Barthes, sono strettamente legati. Assaporando conosciamo. E diventa sapienza, che ci fa crescere, solo ciò che ha sapore. Una dinamica tipicamente umana, della quale la religione è ben consapevole. Per esempio, nella tradizione cattolica l’atto sacramentale per eccellenza è di questo tipo: l’eucarestia si consuma. L’atto di unione e comprensione più profonda, che trasforma, è un atto di incorporazione.

Il consumo, dunque, come espressione tipica della nostra umanità, non è eliminabile. L’uomo è effettivamente consumens. Il problema si verifica quando si pretende di ridurre a questa sola modalità il nostro rapporto con la realtà. Cosa che accade quando, da consumatori, ci trasformiamo in consumisti. Con le conseguenze che conosciamo: da una parte, il nostro approccio diviene tendenzialmente distruttivo; dall’altra, diventiamo bulimici e obesi, affannati come siamo a ingoiare ciò che non riusciamo nemmeno più a digerire.

Per sostenere ciò che altrimenti non sarebbe sostenibile – spingere milioni di persone a consumare compulsivamente, al di là del ragionevole – in questi anni si è puntato sull’iperstimolazione sensoriale e sulla ritualizzazione. Da un lato, gusti sempre più forti, sollecitazioni a trasgredire le convenzioni, comunicazioni eccessive se non perverse; dall’altro, la ripetizione del calendario, la creazione di “santuari profani”, l’esaltazione di nuove caste di “sacerdoti” (i guru, gli esperti, le star).

Con questo doppio registro, che si riassume in quel fenomeno profondo che è la moda, milioni di individui si ritengono unici e originali nel momento in cui seguono modelli e tendenze rigidamente stabiliti, e si sentono parte di qualche tipo di comunità anche quando sono perfettamente soli. Il consumo, infatti, ci fa sentire parte (seppure momentaneamente) di una comunità più ampia, realizzando così quel bisogno di fusione tanto importante per l’essere umano. Il problema è che, terminata l’esperienza, la fusione attraverso il consumo si dissolve con la stessa immediatezza con la quale era apparsa.

Se, dunque, al di là dei suoi eccessi, il consumo costituisce un’esperienza umana fondamentale, il problema non è indire una crociata per combatterlo. Ciò che va combattuta è, piuttosto, la sua unilaterale identificazione con la nostra condizione di liberi, quasi che la libertà non abbia altra modalità per entrare in contatto con la realtà né sia in grado di orientarsi verso forme non dissipative.

Per raccogliere la sfida occorre puntare su qualcosa di potente quanto il consumo, in grado di controbilanciarlo e di contenerne le tendenze egemoniche. Quel qualcosa è il generare che, al pari del consumare, è un atto antropologicamente originario. È questa una ragione fondamentale per scommettere sulla generatività: generare, infatti, è qualcosa di iscritto nella nostra memoria biologica e culturale, che noi conosciamo prima ancora di farlo. E, proprio per questo, solo il generare può avere la forza di contenere il delirio consumistico verso cui siamo continuamente sospinti.

Generare, d’altro canto, è un atto che muove dalla logica opposta a quella del consumo. Mentre quest’ultimo incorpora, il generare “escorpora”. Il primo prende, il secondo dà. Attraverso la nostra capacità di generare, non solo biologicamente ma anche simbolicamente, noi stabiliamo un diverso ma ugualmente fondamentale rapporto con la realtà, sulla quale possiamo lasciare una traccia di valore che esprime profondamente il nostro essere.

Anche in questo caso, l’etimologia ci aiuta. Generare fa parte di un insieme di termini quali “generosità”, “genialità”, “genitore” che condividono la stessa radice genus (genere), la quale rimanda a significati quali partorire, germogliare, fabbricare. In sostanza, mettere al mondo. O, più estensivamente, dare vita, far essere. Si coglie qui la natura “dativa” del generare. Che non è frutto di un imperativo moralistico, ma di quel potente movimento interiore che, mettendoci in sintonia con il movimento della vita, ci spinge a un ruolo attivo nei confronti della realtà.

Proprio in quanto “escorporazione”, la generatività è generosa, eccedente, creativa: essa stabilisce un rapporto positivo nei confronti della realtà, una modalità dialogica che consente di esprimere in modo più ricco la nostra libertà. Il generare ha quindi la forza per contrastare il dominio uniformante del consumare. La cosa interessante, però, è che tale contrasto non avviene sul piano normativo – indicando quello che si deve o non si deve fare – quanto piuttosto sul piano della disposizione antropologica. In questo modo, la nostra capacità generativa acquista uno straordinario potenziale di risanamento di molti fallimenti della libertà contemporanea.

Fonte: vinonuovo

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