di Gloria Riva
C’è una
città dietro il gruppo del Compianto dipinto dal Beato Angelico per la
Confraternita di Santa Croce. Forse, la città, è l’unica pittura certa
del maestro di Fiesole, il resto pare segnato dalla mano degli aiuti. Il
bianco tenue di questa città si riflette nel lenzuolo che accoglie
Cristo in quest’ultima ora. Ora in cui egli è tanto simile a noi!
La
Confraternita, in Firenze, si occupava dei condannati a morte. Le
esecuzioni dovevano esser fatte fuori dalle mura della città, per questo
l’icona dell’Uomo crocefisso fuori dalle mura di Gerusalemme era un
potente richiamo per i condannati: Cristo era stato uno di loro, morto
come loro. Per questa confraternita, nel 1436 fra’ Sebastiano di Jacopo
Benintendi commissiona all’Angelico il Compianto sul Cristo morto, oggi
al Museo San Marco in Firenze. Fra’ Sebastiano era nipote della Beata
Villana de Bottis, una donna data in sposa al facoltoso Rosso Benintendi
che, dopo una vita dissipata si convertì, vestendo l’abito domenicano.
Fu poi favorita di visioni sulla passione del Cristo. In quello stesso
anno l’Angelico l’aveva ritratta nei panni di Anna di Fanuele,
nell’affresco della cella n° 10 nel Convento di San Marco. Qui la Beata è
l’unica a commentare il fatto, introducendoci nel mistero della morte
del Redentore, con una frase lapidaria: «Cristo Gesù, l’amor mio
crocifisso ». Altri santi, con lei, contemplano il Mistero, tra questi:
Santa Caterina d’Alessandria e, dalla parte opposta, san Domenico.
Il
Cristo impressiona. Impressiona nella soavità del tratto, consono allo
stile dell’Angelico, l’abbandono del Cristo nelle mani dell’umanità.
Egli si è lasciato toccare anche nel momento supremo della morte,
davvero ora Cristo è uno di noi, come noi. Lo dicono dolenti e sereni,
Giuseppe d’Arimatea, all’estrema sinistra del dipinto, mentre regge il
suo nardo prezioso e Nicodemo, nell’abito scuro dello scultore, come
vuole la tradizione. A lui, infatti vengono
attribuiti i più antichi crocifissi lignei. Lo dice la Maddalena che si
china nel gesto tipico di baciargli i piedi, il gesto di chi adora.
Anche nell’ora della risurrezione, chiamata per nome in quel medesimo
giardino della sepoltura, si getterà ai piedi del Signore. Lo dicono
Giovanni e una delle tre Marie che, reggendo le braccia di Gesù,
sembrano desiderosi di trattenere la benedizione che da quelle mani
scaturiva copiosa.
Lo sguardo di Giovanni buca la realtà, sembra voler andare oltre quella
morte. Sembra voler dire ai condannati assistiti dalla confraternita di
Santa Croce: c’è un abbraccio sigillato nel tempo che non muta ed è
fisso nell’eternità. La Vergine Madre abbraccia il capo e come Giovanni
guarda intensamente il Figlio. Ella è tutta compresa in quel Mistero.
Tra lei e il Figlio, pur dentro gli occhi chiusi, passa un oceano di
amore e di comunicazione.
A
ben vedere sono la Madonna e la Maddalena, le uniche a toccare il telo
sindonico, vero testimone della vittoria di Cristo sul male e sulla
morte. Dietro al gruppo, ecco la croce e la scala: ad astra per aspera.
Si giunge a Gerusalemme, quella celeste di cui le mura retrostanti
(simili alle mura di Firenze) sono il segno, attraverso l’accoglienza
della croce e l’imitazione del Corpo di carne del Cristo. Qui si chiude
l’intensa meditazione dell’Angelico: davanti a quelle mura, dove la
scala divide l’orizzonte incorniciato da quattro alberi. Due, alla
sinistra del Redentore, sono verdi, ma privi di frutto, altri due a
destra sono carichi di frutti: l’antico giardino è riaperto. Una nuova
umanità vi accede, essa conosce il dolore, tocca con mano la morte, ma
proprio perché sa che questa è stata vinta dal Verbo fatto uomo, vive
nella pace e può confortare chi non crede.
da Avvenire, 15 aprile 2015
Fonte| firenze2015.it
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