di Simone Morandini
Come
scrivere di pace in questo tempo così pieno di violenza? Come
continuare a credere che «giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11b)?
Come pregare ancora, tenacemente, per la pace quando sembra che la
storia non faccia altro che smentire l’invocazione, lasciando spazio
solo per il gemito delle vittime?
La settima
beatitudine non è invito a un facile ottimismo, a una speranza a
basso costo. È invece una promessa esigente, rivolta a coloro che
operano coraggiosamente per la pace, affinché con tenacia perseverino in
un agire che corrisponde a quello dello stesso Dio di cui essi saranno
chiamati figli. Lui, infatti, è il primo operatore di pace, colui che fa
crescere un tessuto condiviso di relazioni positive, radicate
nell’alleanza, una condizione di integrità e di benessere per
le persone, per le relazioni che esse intrattengono, per le
rispettive comunità. Per questo l’annuncio di shalom è
così centrale nelle Scritture ebraico-cristiane, che lo
collegano strettamente all’azione di Colui che non cessa di
indicare cammini di riconciliazione, anche di fronte alla
violenza scatenata. Davvero, essa indica il dispiegarsi storico della
salvezza da parte del Dio che viene: «Come sono belli sui monti i piedi
del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che
annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”» (Is 52,7).
Per il Nuovo Testamento, poi, la pace è uno dei grandi doni messianici
del Salvatore: «Pace a voi» dirà il risorto ai discepoli (Lc 24,36; Gv
20,19.26) e la Lettera agli efesini chiamerà lui stesso «la nostra pace»
(Ef 2,14). La croce – figura di una violenza che giunge a colpire il
Signore stesso – è anche l’albero di vita, da cui promana una potenza di
rinnovamento e riconciliazione che investe la storia e la creazione
tutta.
Shalom dice dunque di un dono che viene
dal Signore, ma anche di una realtà strettamente collegata a una pratica
concretissima di giustizia: l’attenzione al povero e un vissuto che
rifiuta l’iniquità e la violenza costituiscono il terreno fecondo in cui
la pace può sbocciare (Sal 72,1-7). È come un frutto, che sboccia da
una terra vivificata dalla rettitudine: «Nel deserto prenderà dimora il
diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia
darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza
per sempre» (Is 32,16-17); shalom è anche pace con la terra, capacità di vivere in armonia con essa, godendone i frutti e ringraziando per essi.
Non
è casuale, allora, l’ampiezza dei riferimenti al tema della pace nella
dottrina sociale della Chiesa: si pensi in particolare alla Pacem in Terris,
nella quale poco più di mezzo secolo fa Giovanni XXIII chiamava la
famiglia umana a vivere un tempo di cambiamento nel segno di
un intreccio di diritti e doveri, superando la tentazione
della violenza. Al n. 67 l’enciclica ricordava che, in un tempo che si
gloria della forza atomica, è completamente irrazionale (alienum est a ratione) ritenere
la guerra uno strumento di giustizia. Si pensi, ancora, al «Mai più la
guerra », rilanciato anche un anno fa da papa Francesco di fronte alla
minaccia di un conflitto su vasta scala. Del resto, in un mondo
globalizzato la pace appare come una sfida centrale per le stesse
religioni, tutte chiamate a disinnescare quei germi di violenza che
talvolta le contaminano, per farsi invece attive promotrici di dialogo,
di fraternità/ sororità, di giustizia.
E la pace è pure
interpellazione forte per la Chiesa italiana, che nel suo cammino
verso Firenze 2015 si interroga su come seguire oggi il Signore Gesù, su
quale sia la figura di umanità che meglio corrisponde alla sua parola.
Che significa oggi essere discepoli del «Principe della pace» (Is 9,5),
di colui che si presenta a noi come bambino, in una fragilità indifesa,
ma al cui venire «ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando
e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al
fuoco» (Is 9,4)? Come testimoniare storicamente della qualità di questa
pace?
Come operare concretamente per il contenimento e
la riduzione della violenza? Don Tonino Bello invitava a
«non scommettere su una pace che non venga dall’alto: è inquinata », ma
anche a diffidare di una «pace che non si traduca in scelte storiche: è
un bluff» (Sui sentieri di Isaia, La Meridiana 1989). La
beatitudine e la speranza sono per chi sa che la pace è a caro prezzo,
per chi non cede all’ideologia della violenza, per chi sa promuovere
concreti spazi di convivenza, nella giustizia e nella verità, per
la famiglia umana. Sono per chi ha il coraggio di accompagnare tale
pratica con l’invocazione, tenacemente rivolta a Colui che solo può
riempire la creazione e la storia di pace e sostenere chi la ricerca.
da Il Messaggero di Sant’Antonio, ottobre 2014
Fonte: firenze2015.it
Nessun commento:
Posta un commento