venerdì 17 aprile 2015

I dodici in mezzo al mare


di Giorgio Bernardelli | 17 aprile 2015
Sui cristiani buttati in mare dal barcone. E su quanto questa storia - al di là dell'indignazione del momento - dovrebbe dire a noi

Gettati in mare dal barcone dai loro compagni di viaggio musulmani solo perché cristiani. È l'ultima terribile cronaca dalla Sicilia a raccontarci la storia dei dodici migranti ghanesi e nigeriani, affogati in acqua da compagni di viaggio maliani, ivoriani e senegalesi. Sarà giustamente l'argomento del giorno di mille analisi, che non potranno che registrare come la persecuzione contro i cristiani sia arrivata addirittura in mezzo al mare.

È l'orrore nuovo che per qualche ora ci scuote dalla nostra indifferenza. Eppure ci sono due elementi che sarebbe bene tenessimo a mente un po' più a lungo. Primo: i cristiani sono anche su quei barconi. Nella follia di questo nuovo gesto d'odio c'è quel numero dodici che non ci può lasciare indifferenti: dodici come gli apostoli, che Gesù chiamò con sé. Dodici come quegli stessi apostoli che nella grande persecuzione che colpì presto la prima comunità cristiana si fecero pure loro migranti.

La settimana scorsa sono girati parecchio i dati di un nuovo studio del Pew Research Center - uno dei più autorevoli istituti di ricerca sulle religioni - sulle proiezioni legate all'evoluzione del panorama religioso nel mondo da qui al 2050. I due fenomeni più macroscopici sono l'avanzata globale dell'islam e il fatto che se il cristianesimo rimarrà comunque la religione più diffusa al mondo sarà solo per via dell'Africa, dove per la dinamiche demografiche la popolazione cristiana ci si attende raddoppi in questi 35 anni.

In quella ricerca - però - c'è anche un altro dato che pochi hanno ricordato: a un certo punto si esamina anche il rapporto tra religioni e migrazioni. E il dato che emerge è molto chiaro: prendendo in esame il quinquennio 2010-2015 il Pew Research Center calcola un totale di 19,2 milioni di migranti nel mondo. Di questi 8,8 milioni - il 46%, cioè quasi uno su due - sono cristiani. Sono attualmente il 31% della popolazione mondiale, i cristiani, ma se andiamo ad analizzare il mondo dei migranti questa percentuale sale di ben quindici punti.

Migrano più degli altri - in proporzione - i cristiani. Certo: a far salire il dato è soprattutto l'America Latina che preme sulle porte degli Stati Uniti. Ma anche l'immigrazione dall'Africa sub-sahariana - che questa nuova tragedia ci porta drammaticamente in primo piano - è in una parte considerevole composta da cristiani, come sa benissimo chi è in prima linea nell'accoglienza.

C'è però anche un'altra riflessione che questo nuovo atto di violenza ci dovrebbe suggerire. Questo dramma ci rivela infatti chiaramente che i barconi non sono un'altra cosa rispetto alla «guerra mondiale a pezzi», per usare l'efficace espressione di papa Francesco. La violenza di un gruppo di musulmani contro un gruppo di cristiani in mezzo al Mediterraneo non è un fatto isolato; da anni ci sono racconti di episodi simili tra i disperati che arrivano nei campi profughi in Giordania o in Libano (dove - vale la pena di ricordarlo - vivono milioni di persone). È la guerra ad alimentare il fanatismo e la violenza. E del resto basterebbe rileggere Primo Levi per sgombrare il campo dall'idea romantica secondo cui la sofferenza renderebbe gli uomini naturalmente tra loro fratelli.

E allora la domanda diventa: come essere testimoni di pace dentro a questo contesto? Scandalizziamoci, indignamoci di fronte a questa notizia. Ma non fermiamoci qui. Dobbiamo tornare a riflettere sul tema della pace; dobbiamo farci mettere in crisi e non illuderci che la guerra sia sì mondiale ma in fondo solo per gli altri. Dobbiamo capire che è su quei barconi che si gioca la nostra possibilità di fare qualcosa e che - probabilmente - la domanda vera oggi non è un sì o un no all'accoglienza, ma un come. Perché anche l'accoglienza diventa sterile se non si fa strumento efficace di pace e di riconciliazione. Perché l'accoglienza diventa una fatica di Sisifo se poi intorno restiamo indifferenti all'inferno che chi si mette in mare si lascia dietro alle spalle. Perché l'accoglienza senza un sforzo più intenso per un dialogo serio ed esigente tra cristiani e musulmani ci lascerà sempre esposti alla violenza dei fanatici.

I dodici oggi sono su quei barconi. È ora che non deleghiamo più agli altri e proviamo a salirci anche noi.

da | Vino Nuovo

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